DAI DIARI DI ANTONIA POZZI
“Natale 1926.
È passato anche questo Natale. Giorno lieto, di una letizia un po’ tradizionale, come il panettone e il tacchino, come il vischio portafortuna, come il Presepio o l’Albero di Natale; giorno dunque di festa ma, come ogni data singolarmente importante e solenne, di rimpianto per quelli passati.
Sentimento strano, ingiusto in me, che sono ancora quasi bambina, che dovrei guardare solo all’avvenire, fiduciosa, serena! Forse gli anni scorsi sentivo così; quest’anno, invece, no; è diverso, non so perché. Ho paura, e non so di che: non di quello che mi viene incontro, no, perché in quello spero e confido.
Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. [...].”
*
Rigurgito di giovinezza
a L. B.
Umida strada
cielo d'ametista
...lacrime e lacrime
sulle tue lunghe ciglia
sulle mie lunghe dita
ma la mia anima
canora contro il vento
come un drappo di seta
a sbandierare
frenetica di strappi
per versare in uno squarcio
la sua giovinezza
ed inondarne te
nuvola bionda
impolverata dalla vita
*
LA CAMPANA SOMMERSA
Per i miei occhi malati,
una trasparenza di falso cielo,
dentellata di falsi pini.
Da una tempia all’altra,
sospeso a una tensione acuta di violini,
un dondolio di intensità diverse,
rotto da scrosci fondi.
Nell’anima,
nessun motivo costringente:
poche note sgranate e increspate
liberamente.
*
CONVEGNO
Nell’aria della stanza
non te
guardo
ma già il ricordo del tuo viso
come mi nascerà
nel vuoto
ed i tuoi occhi
come si fermarono
ora - in lontani istanti –
sul mio volto.
*
Mano ignota
Tu non sai come sia triste
... tornare per questo sentiero
fangoso
con queste vesti
imbrattate –
nella sera nera
nella nebbia nera –
brancolare tra i rododendri
stillanti –
fiutarne l'odore amaro –
per non cadere aggrapparmi
a questa mano che mi porgi
ignota
come il tuo volto immerso nel buio –
come il tuo nome dimenticato –
andare verso una tenda
che la pioggia confina
in fondo al suo pianto –
aver dovuto – voluto
scostare
nella notte più oscura
l'unica mano sorella –
andare verso un domani
che la solitudine chiude
in fondo al deserto...
(Breil) Pasturo, 15 agosto 1933
*
VOTO
Ed è tanta la pace
ch’io dico:
- oh, possa tu incontrare la donna
che ti ridìa
la creatura che abbiamo sognata
e che è morta –
dico:
- si faccia solco
almeno per te
la fossa
e si confonda con la pioggia del cielo
il mio pianto:
bagni il tuo crescere
senza essere scorto -
*
SERA D’APRILE
(1931)
Batte la luna soavemente
di là dai vetri
sul mio vaso di primule:
senza vederla la penso
come una grande primula anch’essa,
stupita,
sola,
nel prato azzurro del cielo.
Da “Parole”.
FERRUCCIO BRUGNARO
IL SILENZIO DEL VECCHIO
Non brami nulla
eppure una strana magia
di ombre e di gemme
ha bagnato il tuo voltto
di calde espressioni.
Un calice bianco
ti attrae
da uno scialbo giardino.
Raggi di diamante
bucano il silenzio lucente
che ti tiene la mano
lungo il viale.
Ma del vuoto
come del fiore
hai una precisa sapienza.
[dalla rivista Noialtri - genneio/febbraio 2008]
*
FERDINANDO BANCHINI
OLTRE
La sera allarga il suo varco quieto
nell'ordito rosa-viola, avanza
nel gioco indolente d'un soffio
di vento salso fra gli ulivi. Sparsi
segni fugaci brillano a un riverbero
ultimo, di splendori in numeri annunzio
sereno. Ampio indugio pacato
bellezza rinnovantesi. Voci alate
sommesse si rispondono nei folti
cupi dei lecci. Oh certo trepide mani
ora illudono volti di fiori e di luci,
svanendo ansie in parole lievi.
Quale gioia si spande, quale accordo
mite si compie? Intorno
la buona terra odora.
Ma altrove, altrove è l'eterno.
Oltre sabbie riarse, aerei picchi,
alta aspra è la vita.
[da Noialtri - gennaio/febbraio 2009]
*
FERRUCCIO BRUGNARO
MATTINA DI PASQUA
L'alba gonfia di pioggia
riapre il porto
con le sue punte di ferro alte,
con le sue schiere di fumi.
Il solforico, la trielina
s'insinuano nelle narici
terribili.
Il desiderio
di resurrezione
di luce
in noi
grida come il vento delle steppe.
[da Noialtri - gennaio/febbraio 2009]
*
[Poesie tratte dalla rivista Alla bottega]
FERDINANDO BANCHINI
GIOVINETTA
T'ho vista andare
per vie odorose di mirti e rose,
ai sogni offerta
che un soffio inarca,
per luminose
vie verso il mare - lievi onde,
chiare -,
o giovinetta
dal viso d'alba.
*
GIORGIO PIZIALI
BRILLA L'OMBRA DEL GRIDO
Brilla l'ombra del grido
adagiata rossa
sui campi di fango.
La radice azzurra del bene
s'infila una collana di
occhi:
all'estrema fine del bosco
danza nuda sul cielo
rovesciato nel prato.
(le margherite sono stelle)
I coralli di fango
infilati in un filo di strade
brillano d'ombre di grida.
I fianchi della donna di trifoglio
sussurrano i segreti delle
nuvole scosse;
vedono i suoi gigli,
e fra ricci e cardi,
le sue rose parlano;
la radice del bene
ora seduta nel pino
e pulita dal fango,
ora brilla in un grido che va, si accartoccia
nel cuore
*
FRYDA ROTA
OGNI PAROLA E' UN'ISOLA
All'ombra profondissima di un foglio
consegno insieme alle parole voci
contorte d'anima: così accedo
alle braccia del tempo che labile
dimentica e pongo un guinzaglio
ai pensieri troppo facili alla fuga.
Appuntata nel cuore del foglio
ogni parola diviene isola.
Quando sorgerà l'attimo imprevisto
ad imterrompere la trafittura quotidiana
in qualche crepa segreta della casa
da una rete di oblio sgusceranno
le remote promesse e gli incontri
che si conclusero in un vicolo cieco.
Allora le parole che guaste in bocca
furono poi scritte tenderanno mani
alla memoria e con sottile grazia
funambola ripercorreranno la trama
del ricordo in un sapore di terra ritrovata.
*
GIOVANNI COZZA
SERA ESTIVA
L'incarnato scoglio del nulla con
districate ali viene planando sulla
mia casa quando l'offertorio del
sole apre alla tenebra nell'ultimo
tramonto fatto di nubi altere. Così
pronto e vassallo scendo all'ospizio
della disgregazione e del principio con
tante mani, mani pulite per
adorare corpi distesi e vivi.
*
NINNI DI STEFANO BUSA'
NEL BREVE MORIRE D'OGNI VOCE
Caduta in verticale
quel senso di rifiuto
ad un'alba che preme d'amaro
se, oltre il lago dei tuoi occhi
non trovassi eternità di spazi.
Nell'incavo di un cuore
fatto d'essenza cristallina,
vena di sangue disseta
l'arsura smisurata
oltre il confine di memoria.
E si ripete il gesto
monosillabo d'amore, che placa
uragani d'ansia nelle strettoie insolute
della sorte.
Come urlo di vento viaggiamo
tra i pinastri irredenti
di una croce paleolitica.
Un segreto dolore scandisce
ritmi alla vita.
Sulla scia di risonanze d'echi
cammina a piedi nudi il tempo,
verso una terra d'ombra
che approderà a campi di zagara,
con il sole trafitto
nel breve morire d'ogni voce.
[Segnalazione al XXVI Premio "Aspera" -
apparsa su Alla bottega]
FRANCESCO MAROTTA
LA CANZONE DEL SONNO
città irate cieco confine
di cui diranno il nome
frugando luci
che gemono
fra le pietre mappe
invisibili
che ondeggiano confuse armonie
febbre di mani
che si dissetano
nella pietà di un fiore
i passi somigliano
di lampade
verso orizzonti murati
nel gelo
di una voce gli occhi
scomposti
come lontane aurore
questo notturno appesantire di stelle
prive di mondi
attendono gli sguardi e forse
inventeranno un sole
sulle pareti
di palazzi vuoti
giocheranno i domani
come approdi sognati di sete
dove è già tramonto
ogni storia che strapparono ai giorni
canti deserti
di ore rovesciate
le stagioni negate alla terra
**
perché è autunno
l'anima che vedi rotolare lontano
distaccata
risonanza di abbandono
che per nessun volo
saprebbe ormai farsi sentiero
o dimora costretta
a stupore di liquidi ciechi
di carne
e memoria esplosa
tra le rotaie
e la sera compagna
di un grido
compagna di un dio che trascorre
come chi semina
voci di pietre
e frutti domanda a penombre
di sabbia
un dio che morde e avvampa
vestito da bambino
che uccide le sue mani
simili a vento
profumo di spine
dagli anni feriti parole fiorisce
di un oggi che è tempo
che non pesa
e in pozzi di strade
annega
di luce
che non conosce immagini
***
nome non ha né giorno
questa città che mi scoppiava
in mezzo agli occhi
di maschere liberate
nella ritualità
del suo dolore danza
lungo il grigio delle ombre
e i suoi istinti
e notte il canto assenza il viso
che si dispiega per cammini
sterili nulla la voce
che la guida
tranne talvolta quell'unico
lamentato silenzio
che non grida che
non chiede
non dice i passi
non legge l'ora sanguinante
al fuoco dei suoi muri
l'ombra dipinta
che ti viene incontro la polvere
che degli anni è rimasta
impigliata in graffi lenta
curva di lampi
franati
su strade arate di luna
e porti di vento intorno
che affondavano lievi
il cielo supertite
il giorno nell'acqua dei navigli
****
a fatica sospeso in voli di peste
ricompongo le voci
del suo canto io vado là
nel sole di un altrove sommerso
a leggere torri di vetro
stagioni di sale
in un nome a gridare
preghiere senza sonno
come fossi già un passo
sopra l'altro
tra Milano e la follia
più vicino alla lingua
che senza sangue
fa rivivere i volti
non riflessi dagli specchi del giorno
che abita grovigli di vite
accenti e rumori di esistenze
bruciate e neppure c'è un dio
oltre il sonno
ma un cielo compare
e parla di giorni invisibili
racchiusi in un punto io
li penso così
e trovano il tempo di fermare la mano
sul cuore
sia veglia sia sonno
fosse anche l'ultimo sogno
trovano spazio ancora recisi
di sbocciare da radici
di pietra
[dalla rivista Alla bottega]
HART CRANE
GIARDINO ASTRATTO
La mela sul suo ramo è il desiderio
di lei, - sospensione lucente e mimica del sole.
Il ramo le ha tolto il respiro, e la sua voce,
nell'inclinarsi e levarsi su di lei di ramo in ramo,
articolata sordamente ecco le annebbia gli occhi.
Lei prigioniera dell'albero, delle sue dita verdi.
Giunge così a sognare d'essere divenuto albero, col vento
che la possiede e intreccia le sue vene giovani,
la stringe al cielo e al suo rapido azzurro, annegando
la febbre delle mani nella luce
del sole: E non c'è in lei memoria, paura né speranza,
oltre l'erba e le ombre distese ai suoi piedi.
NAZIM HIKMET
SONO CENT'ANNI CHE NON HO VISTO IL SUO VISO
Sono cent'anni che non ho visto il suo viso
che non ho passato il braccio
attorno alla sua vita
che non mi son fermato nei suoi occhi
che non ho interrogato
la chiarità del suo pensiero
che non ho toccato
il calore del suo ventre
eravamo sullo stesso ramo insieme
eravamo sullo stesso ramo
caduti dallo stesso ramo ci siamo separati
e tra noi il tempo è di cent'anni
di cent'anni la strada
e da cent'anni nella penombra
corro dietro a te.
VELIMIR CHLEBNICOV
LE RAGAZZE, QUELLE CHE CAMMINANO
Le ragazze, quelle che camminano
con stivali di occhi neri
sui fiori del mio cuore.
Le ragazze che abbassano le lance
sui laghi delle proprie ciglia.
Le ragazze che lavano le gambe
nel lago delle mie parole.
EMILY DICKINSON
Se potrò averlo, appena morto,
io mi contenterò -
se, cessato il respiro,
mi apparterrà
prima d'essere chiuso nella tomba,
sarà per me gioia incommensurabilke -
perché, anche se ti chiudon nella tomba,
io possiedo la chiave.
Pensa, Amore! Tu ed io
potremo infine stare faccia a faccia
dopo tutta una vita, o diciamola Morte,
perché quella era Morte,
mentre questo sei tu.
c. 1862
ALFONSO GATTO
PRO MEMORIA
Amico d'una volta,
allegro giustiziere,
ascolta.
Forse di me dovrai dire:
è morto per sbaglio
o voleva morire.
S'accusa sempre l'errore
in ogni tempo di viltà.
Sempre s'uccide il fiore.
AGLI AMICI
Fumeremo nel bastimento della bottiglia
tra le grandi lettere tremolanti sull'acqua
la pipa dei racconti, il dolce odore del legno.
Poi dal clamore esiterà nel nulla
l'ultimo sparo che dondola il capo.
SAMUEL BECKETT
MORTE DI A. D.
e qui essere qui ancora qui
schiacciato contro la mia vecchia asse sifilitica del buio
dei giorni e delle notti triturati alla cieca
ad essere qui a non fuggire e fuggire ed essere qui
chinato verso la confessione del tempo che muore
per essere stato quello che fu fatto quello che fece
di me del mio amico morto ieri con l'occhio lucido
i denti lunghi che ansimava dentro la barba che divorava
la vita dei santi una vita al giorno di vita
che riviveva nella notte i suoi neri peccati
morto ieri mentre io vivevo
ed essere qui a bere più in alto della tempesta
la colpa del tempo irremissibile
aggrappato ai vecchi legni testimone delle partenze
testimone dei ritorni
Meth Sambiase
Il segno semplice
BioVite Versificate
la plastica serve a rendere corpo la linea
sono i colori quelli che ne debbono ballare
invece i danzanti avevano i piedi mutilati
né danzavano né si muovevano
la stasi cinetica, il piatto colore pure.
1872
Lesse di lui. Era nato il giorno in cui lei era nata.
Guardava le stelle sopra il Nord del mare
l’universale, l’universale
s’impegnava a destrutturarle
l’anima dev’essere un luogo semplice per ospitare lo spirito
dov’era il segno semplice?
Cominciò con una linea orizzontale
la incrociò con una linea perpendicolare, la sgonfiò
ridusse l’occhio fino alla linea orizzontale
ma l’occhio era ancora un cerchio troppo infinito
dov’era il segno semplice?
(ri)Cominciò con una sola linea. Orizzonte orizzontale
(ri)prese una linea in verticale
ma ne centrò il cuore
e creò una semplice prima stella
era quella la stella era quella l’onda era quello il mare
Tutto si compone con una crocifissione di orizzonte e mare
la perfezione intatta di un angolo giro trafitto
un palo conficcato nella terra per crescere le viti
una vite conficcata nella terra per segnare le tombe
è l’incrocio il segno semplice
bisogna insegnargli a vivere come uomo
dare piacere: un impulso un flusso un orgasmo
ti scorra addosso l’arcobaleno la curva dei colori
(Dicono che il suo studio fosse una sotterranea Babele
oltre, sul tavolo, la pace del segno che riproduceva e viveva)
Nel perfetto nulla è sbilenco
le molecole del tutto sono silenziose
non recano tracce di dubbiosa infiltrazione
per l’essere puro si dipinge né dolenza né delizia
ma le croci cantano nella tela
si rincorrono si mordono si fondono come uomini
disobbediscono alle regole della distanza
tutti disobbediamo, perché non dovremmo?
*
1960
Sono il re degli idioti
mi concentro e resto ben dentro il trono
la domanda è nel perché
il riflesso è (in)condizionato si
vuole si necessita, si bisogna si schizza il colore
si spruzza
si inietta si raffina
si scopre né il come né il mai
funziona ancora il corpo se
se ne avvelena ogni sezione
l’ossimoro è l’unica vitale funzione
più mi contraggo più ho bisogno di spazio.
Bella mia sono rossi i tuoi volti
ero profugo e tu mi hai dato i colori
Nel nulla dai troppi rumori
ho continuato a crescere e diventare forma di uomo
ma ancora sento quel pezzo che manca
un covone una rete una milza
una pula un bozzolo un’eclisse
ci sono due teorie sull’essere dipendente
io voglio dipendere da te
io non voglio pendere fuori da nessun altro al di fuori di te.
Il nero è il mio muro enorme
se è bianco allora ci dipingo il mio me in nero
non ho mani ho pugni
e i pugni sono ferro di carne nei guantoni da boxe
perché l’arte è un ring su cui combattere
guardami non cedo
son pieno
di graffi che coloro e mi amo
così tanto che mi riempio in ogni figura
ho lenti a specchio, senza lenti, ho capelli alti, senza capelli
alti,
dopo il nero arriva il sangue
il rosso è il sangue del sole
dopo il sole arriva il bianco
il bianco è l’osso del dente
e i denti servono a poco per questo li mostro così tanto
mangio poco, però è tanto il mangiare che mi fanno
mi vendevo per così poco
una cartolina, un bacio, un viso addosso.
non mi basta più, madre
ora ho paura non ci sono più colori
mi tremano le mani quadre
è questo l’inferno non avere più colori
ho ancora le parole
non le sente nessuno
sono inflitto in una camera di dolore
infettato scritto sotto sopra
credimi o no, io realmente posso farmi meno male
*
1932
Mi lascio vivere in mezzo allo specchio
sembro vera
dietro ho una fossa impaziente, l’appiglio
dattorno l’argento dei capelli neri, l’alterazione
colma in ogni ferita
voglio (ri)cominciare ogni volta
se ne avessi di tempo se ne fossi ristabilita
sarebbe strabiliante il mio canto sulla salita.
mi butterò dalla finestra,
mi butterò dalla finestra
Ho poche ossa asciutte
c’era il diluvio nell’ottavo girone
il peccato capitale era il profeta:
che sia vuoto l’eco di ogni camera!
Ho finto di non sentire
ho continuato a cantare
piccoli ghiacci come fiammelle mi spegnevano la voce
Mi sento una disgraziata
ho i forni da lucidare i bicchieri spaiati
l’eternità da ricomporre
i giorni del calendario, fuori a guardare
lo spiedo del sindaco, gli anni degli alberi
Mi vesto e mi snervo
gli abiti sono pallidissimi, inguainano i fianchi,
sono stretta, un futuro
è un morso, prossimo a venire
dovrò vedere nove persone
otto dottori, un solo marito
- giovane vecchia sentimentale -
nessuna relazione solo la distanza
fra l’uno e l’altra messa distillare
ricomporre ogni separazione è questa la speranza.
“occhi e facce sono tutti verso di me”
Non avrò il bianco del velo,
il colore della luce sarà la polvere
frantumata delle ossa
quando ancora sola
non mi alzerò più da nessun letto
- ogni fame mondata, ogni fame bendatami
stenderò in un calco di legno
un filare segnerà il riposo, le assi,
la fine, sotto il morso delle arvicole
l’atarassia, la nuova ospitale casa
fedele perché il Nulla è amorevole
un nome unito e cancellato
*
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Alfonso Gatto
Il Caprimulgo
Tornerà sempre l'ironia serena
del sortilegio sulle tue corolle,
fiore disfatto.
E tu che voli e piangi
stridendo coi tuoi grandi occhi oscuri,
o caprimulgo dalle piume molli,
il buio sempre ingoierà la notte
delle farfalle nere, le lucenti
blatte in cui l' uomo misero rattrae
le mani e gli occhi a rispettarle,
umane della pietà per sé.
Per la scala degli inferi discende
il consenso perenne, l'ordinata
congrega delle vittime plaudenti.
O misura dell'uomo in sé dipinto
costretto oltre la morte, mummia salva
a schermo delle mani,
a non aver più limiti, distratta
è la forza latente, il bruco insonne
della materia che ci traccia e insegue.
Un fenomeno oscuro il divenire
l'enfasi sorda che alle sue parole
non crede più, ma giura. Ancora scende
questa scala degli inferi e l'informe
che chiede un senso smania di figure.
Dall'intimità - J.L. Borges
Non sarò più felice. Non importa
forse, ci sono ben altre cose al mondo;
un istante qualunque è più profondo
e più vario del mare. Breve il vivere
benché lunghe le ore, e in una d'esse
un oscuro miracolo si cela:
la morte, un altro mare, un'altra freccia
che ci fa liberi da sole e luna
e dall'amore. Il bene che mi desti
e mi togliesti devo cancellarlo;
ciò ch'era tutto dev'essere niente.
Solo mi resta il gusto d'essere niente.
Solo mi resta il gusto d'essere triste,
l'abitudine vana che m'inclina
al Sud, a quella porta, a quel cantone.
*
Il Sud - J.L. Borges (Dall'intimità)
Da uno dei tuoi cortili aver guardato
le antichissime stelle,
dalla panchina in ombra aver mirato
le loro luci sparse
che il mio ignorare non ha ancora appreso
a chiamare per nome
né a ordinarle in costellazioni,
aver sentito l'acqua che fa circoli
nell'occulta cisterna e l'odore
di gelsomino e caprifoglio,
il sonno silenzioso dell'uccello,
sapere l'arco dell'androne e l'umido:
questo forse è poesia, non altro.
FERNANDO PESSOA
Grandi misteri stanno
sulla soglia del mio essere,
la soglia su cui si posano un momento
grandi uccelli marini che mi fissano
se lento avanzo a guardarli.
Sono uccelli degli abissi,
come quelli dei sogni.
A pensare mi riempio di dubbi,
per l'anima è un cataclisma
la soglia su cui posa.
Allora mi scuoto dal sogno
e mi rallegro alla luce,
se pur il giorno è triste;
perché la soglia è terribile
e ogni passo è una croce.
[traduzione di Vittoria Corti]
SE TEMPO E SPAZIO, COME I SAGGI DICONO
Se Tempo e Spazio, come i Saggi dicono,
sono cose che mai potranno essere,
il sole che non cede al mutamento
non è per nulla superiore a noi.
Così perché, Amore, dovremmo sperare
di vivere un secolo intero?
La farfalla che vive un solo giorno
è già vissuta per l’eternità.
I fiori che ti diedi allorché la rugiada
tremolava sul tralcio rampicante,
prima che l’ape volasse a suggere
la rosellina di macchia erano già appassiti.
Così affrettiamoci a coglierne ancora
senza tristezza se poi languiranno;
i nostri giorni d’amore sono pochi:
facciamo almeno che siano divini
(T. S. Eliot - Poesie giovanili, 1905 - trad. Roberto Sanesi)
Paul Celan
Todesfuge
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo al meriggio, al mattino, lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti
Nella casa c’è un uomo che gioca coi serpenti che scrive
che scrive in Germania la sera i tuoi capelli d’oro Margarete
lo scrive e va sulla soglia e brillano stelle e richiama i suoi mastini
e richiama i suoi ebrei uscite scavate una tomba nella terra
e comanda i suoi ebrei suonate che ora si balla
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino, al meriggio ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa c’è un uomo che gioca coi serpenti che scrive
che scrive in Germania la sera i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti
Egli urla forza voialtri dateci dentro scavate e voialtri cantate e suonate
egli estrae il ferro dalla cinghia lo agita i suoi occhi sono azzurri
vangate più a fondo voialtri e voialtri suonate che ancora si balli
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al meriggio e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca coi serpenti
egli urla suonate la morte suonate più dolce la morte è un maestro tedesco
egli urla violini suonate più tetri e poi salirete come fumo nell’aria
e poi avrete una tomba nelle nubi lì non si sta stretti
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al meriggio la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e al mattino beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
egli ti centra col piombo ti centra con mira perfetta
nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
egli aizza i suoi mastini su di noi ci dona una tomba nell’aria
egli gioca coi serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco
i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith
da “Papavero e memoria”
Maria Musik
Da: Copertina
I miei cari morti
I miei cari morti
Vengono a visitarmi
E portano una sacca
Che aprono,
Piano piano,
Restituendomi intatte
Le trascorse primavere.
Ecco che, fra mandorli in fiore,
Zampilla la fontana
Dove guizzarono pesci rossi
E mani di bambini.
Ritorna la mimosa
Attaccata a gonne fluttuanti
E a zoccoli che marciarono
Battendo strade a divieto di transito.
Salgono spirali di fumo
Profumato di salsedine e notti stellate
Ad illuminare il sabbioso spartito
Per una chitarra accarezzata e percossa.
Si fa carne l’aprile più bello
Fragrante di talco e latte
Dimentico di urla, ricolmo di vagiti
E morsi voraci che dolci azzannarono i seni.
Vengono i miei cari morti
Lasciano una sacca vuota
Per ricordarmi
Che sono ancora viva.
*
Scambio di ruoli
Se fossi uomo
e tu donna
t’avrei stretta forte fra le braccia
t’avrei baciato il volto e le labbra.
Ti avrei frugata
ed accarezzando ogni dolore,
tramutato il lamento in gemito.
Ti avrei presa, nell’algido tramonto
per riempire di me
il tuo vuoto profondo.
*
Miagolare pallido e assorto
Un gatto miagola accorato
Nella notte che suda.
Gli rispondo con un lamento
Languidamente filtrato dalle grate.
Questa estate
È un doloroso amplesso
Che impudico
Si strappa di dosso le lenzuola
E disturba gli impotenti silenzi
Della città deserta.
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DALLE POESIE DI ANTONIA POZZI
MORTE DELLE STELLE
Montagne – angeli tristi
che nell’ora del crepuscolo
mute piangete
l’angelo delle stelle – scomparso
tra nuvole oscure –
arcane fioriture
stanotte
nei bàratri nasceranno –
oh – sia
nei fiori dei monti
il sepolcro
degli astri spenti –
1933. In “Parole”
*
Mattino
A lungo dalla luna infranto
... or ricompone il lago
la sua incolumità
cerulea.
Presso l'isola inferma un cipresso
trae dalle nebbie le bende
per le ferite nascoste:
tacito prega, votando
il nuovo giorno – al cielo.
*
Ricordo che, quand’ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sol volta, ma ne conservavo
un’aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l’orizzonte;
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.
Milano, 24 aprile 1929
*
Riconciliazione
La luna è vitrea e lieve
... ancora, nel vasto tramonto.
Perché non uscire
di qui? Perché non portare
laggiù, nelle strade, la mia
nostalgia dei monti perduti,
tradurla in amore
pel mondo
che amai?
Già troppo soffersero
del mio rancore
le cose: e vivere non si può
a lungo
se silenziosamente piangono
le cose, su noi.
Stasera, stasera,
quando i volti degli uomini
saran macchie d'ombra e non più –
quando le case
al sommo
sole vivranno di luce –
io troverò me stessa
nel vecchio mondo
e profondo
sarà l'abbraccio
delle cose con me.
Riconteremo i fili
che legano i miei occhi
agli occhi illuminati delle vie,
riconteremo i passi
per cui l'anima versa
la sua sete di strade
sopra la buia terra –
Forse le cose
perdoneranno ancora –
forse, facendo
delle gran braccia arco
su me,
pergolati di sogni stenderanno
domani sovra il mio
solitario meriggio.
3 novembre 1933
Tratto da: Parole
*
Non c'è nessuno,
non c'è nessuno che vende
i fiori
per questa strada maledetta?
E questo mare nero
e questo cielo livido
e questo vento avverso -
oh, le camelie di ieri
le camelie bianche rosse ridenti
nel chiostro d'oro -
oh, l'illusione primaverile!
Chi mi vende oggi un fiore?
Io ne ho tanti nel cuore:
ma serrati
in grevi mazzi -
ma calpestati -
ma uccisi.
Tanti ne ho che l'anima
soffoca e quasi muore
sotto l'enorme cumulo
inofferto.
Ma in fondo al nero mare
è la chiave del cuore
peserà
fino a sera
la mia inutile messe
prigioniera -
O chi mi vende
un fiore - un altro fiore
nato fuori di me
in un vero giardino
che io possa donarlo a chi mi attende?
Non c'è nessuno,
non c'è nessuno che vende
i fiori
per questo tristo cammino?
*
Io sono una pagina per la tua penna.
Tutto ricevo. Sono una pagina bianca.
Io sono la custode del tuo bene:
lo crescerò e lo ridarò centuplicato.
Io sono la campagna, la terra nera.
Tu per me sei il raggio e l’umida spiaggia.
Tu sei il mio Dio e Signore, e io
Sono terra nera e carta bianca.
Marina Cvetaeva
Per il mio cuore basta il tuo petto
di Pablo Neruda
Per il mio cuore basta il ...tuo petto,
per la tua libertà bastano le mie ali.
Dalla mia bocca arriverà fino al cielo,
ciò ch'era addormentato sulla tua anima. In te è l'illusione di ogni giorno.
Giungi come la rugiada alle corolle.
Scavi l'orizzonte con la tua assenza.
Eternamente in fuga come l'onda. Ho detto che cantavi nel vento
come i pini e come gli alberi di nave.
Com'essi sei alta e taciturna.
E ti rattristi d'improvviso, come un viaggio. Accogliente come una vecchia strada.
Ti popolano echi e voci nostalgiche.
mi son svegliato e a volte emigrano e fuggono
uccelli che dormivano nella tua anima.
Poesie di Antonia Pozzi
La voce
Aveva voce in te
... l'universo
delle cose mute,
la speranza
che sta senz'ali nei nidi,
che sta sotterra
non fiorita.
Aveva voce in te
il mistero
di tutto che presso una morte
vuol diventare vita,
il filo d'erba
sotto le putride foglie,
il primo riso del bimbo salvato
a fianco di un'agonia
in una corsia
d'ospedale.
Or quando cade dagli alti
rami notturni
dei campanili – un rintocco –
e in cuore affonda come
il frutto dentro il campo arato –
allora hai voce
tu in me –
con quella nota
ampia e sola
che dice i sogni sepolti
del mondo, l'oppressa
nostalgia della luce.
*
Il cielo in me
Io non devo scordare
che il cielo
fu in me.
Tu
eri il cielo in me,
che non parlavi
mai del mio volto, ma solo
quand'io parlavo di Dio
mi toccavi la fronte
con lievi dita e dicevi:
– Sei più bella così, quando pensi
le cose buone –
Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi per la mia persona
ma per quel seme
di bene
che dormiva in me.
E se l'angoscia delle cose a un lungo
pianto mi costringeva,
tu con forti dita
mi asciugavi le lacrime e dicevi:
– Come potrai domani esser la mamma
del nostro bimbo, se ora piangi così? –
Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi
per la mia vita
ma per l'altra vita
che poteva destarsi
in me.
Tu
eri il cielo in me
il gran sole che muta
in foglie trasparenti le zolle
e chi volle colpirti
vide uscirsi di mano
uccelli
anzi che pietre
– uccelli –
e le lor piume scrivevano nel cielo
vivo il tuo nome
come nei miracoli
antichi.
Io non devo scordare
che il cielo
fu in me.
E quando per le strade – avanti
che sia sera – m'aggiro
ancora voglio
essere una finestra che cammina,
aperta, col suo lembo
di azzurro che la colma.
Ancora voglio
che s'oda a stormo battere il mio cuore
in alto
come un nido di campane.
E che le cose oscure della terra
non abbiano potere
altro – su me,
che quello di martelli lievi
a scandere
sulla nudità cerula dell'anima
solo
il tuo nome.
11 novembre 1933
*
VENEZIA
Venezia. Silenzio. Il passo
di un bimbo scalzo
sulle fondamenta
empie d’echi
il canale.
Venezia. Lentezza. Agli angoli
dei muri sbocciano
alberi e fiori:
come se durasse
un’intera stagione il viaggio,
come se maggio
ora
li sdipanasse
per me.
Al pozzo di un campiello
il tempo
trova un filo d’erba tra i sassi:
lega con quello
il suo battito all’ala
di un colombo, al tonfo
dei remi.
1933. In “Parole”.
Roberto Mosi
con pitture di Enrico Guerrini
Sinfonia per Populonia
Quattro tempi: Inverno, Primavera, Estate, Autunno
Da: INVERNO
CAOS
“Il temporale scioglie
la notte” la voce del lucumone
“Populonia rimane muta
aggrappata alla costa,
la melma dei ruscelli
uccide le creature del mare,
rosticci di ricordi galleggiano,
precipitano sul fondo.”
*
“Sono cinque giorni
che mangiamo arance
nascosti nell’aranceto.”
La faccia nera appare
al telegiornale della sera.
Per le strade di Rosarno
la furia della gente,
ronde di bianchi in giro.
*
“Seduti nell’ombra
aspiriamo crack”,
fiammelle per la dose,
luce negli sguardi,
a Castel Volturno.
Sopravvissuti alla droga,
pelle di cenere.
“Gli altri morti, senza nome.”
*
“Osserva l’andare
alla via Domiziana
e il ritorno per la droga.
Vedi questo squarcio
d’Africa.” Non muoiono
tra le lenzuola, chiudono
gli occhi tra la spazzatura.
immigrati, neri africani.
*
“Ogni sera sono qui
alla terrazza Mascagni.”
I gabbiani guidano le navi
nel porto, alla Meloria
si accende l’occhio rosso.
Si allontana l’ombra
della Moby Prince
per il destino di fuoco.
*
Da: PRIMAVERA
NASCERE
Esposizione
“Oh sacro Amore, nella casa
avvolta dalle ombre dell’inverno
risuonino accordi di chitarra,
i canti riempiano le stanze,
si alzino calici di vino,
il colloquio con le ombre
diventi dolce e sommesso.
La vita ha generato la vita.”
*
Da: ESTATE
FIORIRE
Dalla loggia sul giardino
assaporo lo stupore
del cielo stellato, nella notte
che avvolge la casa.
La campagna sonora di grilli
è appesa lontano, lontano
all’eterna fiamma, alta
sui fumi dell’acciaieria.
*
Il giardino si alza
dai campi di pomodoro,
dai solchi di piante
dagli occhi arrossati,
fino alle colline.
Impazzisce il canto
imperturbabile delle cicale
arroventate dal sole.
*
La spiaggia un tappeto
di trame a colori disegnate
dalla storia degli Etruschi:
il rosso dei forni,
l’argento della polvere di ferro.
Intorno le braccia aperte
del Golfo di Baratti,
verdi di antiche pinete.
*
I girasoli circondano
la casa del mare.
Dalla loggia ascolto
il silenzio dei girasoli,
i grandi occhi gialli
seguono le nostre storie.
Fissano nella memoria
i ricordi dell’estate.
*
Da: AUTUNNO
TRAMONTO
“Ti vesti di parole
sempre nuove.”
Mi spoglio di parole
sempre nuove,
volano via i nomi
dalla stanza della mente.
Rimane l’ombra
dei vestiti appesi.
*
Se il nome riemerge
è festa, l’incontro
con l’amico ritrovato.
Al centro della mente
s’innalza la dimora
raggrinzita dell’Io.
La porta aperta
per l’ultimo volo.
*
Ho strappato trenta fogli
dal quaderno delle poesie.
Li lancio dalla terrazza,
aeroplani di carta rosa.
Cadono a capofitto
sulle pietre della strada.
Solo uno si alza in volo,
sulle ali lampi di ricordi.
*
Ascolto il silenzio
dalla Rocca di Populonia
lontano da spiagge affollate,
da strade stipate di motori.
L’aruspice etrusco segue
il volo del falco, coglie
i segni del cielo, disegna
la figura delle ombre.
*
“La violenza del giorno
è lontana, la città torna
all’antico mistero.”
I sacerdoti escono dal tempio,
la processione sale all’altare
sulla collina per il sacrificio.
Il nuovo sangue
nutre la vita del mito.
*
Mi lascio andare
alle onde, l’acqua accarezza
il mio andare leggero.
Sotto di me le ombre,
le creature del mare
vivono il mistero della notte.
Davanti la luce di Febo,
la bellezza a portata di mano.
*
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BRUNO SOURDIN
[Dal poemetto "Recandomi a Lisbona dopo una visita a Francois Augieras senza incontrarlo"- facente parte del libretto "Paris git-le-coeur", fuori serie della rivista Quetton L'Arttotal, 4° trimestre 1994, per la collana Poesie clandestine]
-
Neon ammiccanti, bagliore selvaggio, sul marciapiede all'alba
Vento leggero, dopo una lunga notte magica
Coltivata sotto un riflesso, strada misteriosa
Le auto filano senza arrestarsi
Sogno lampo, nell'aria scintillante
*
E io t'immagino entro la gioia
Selvaggia di questo sole che sorge
Solo appollaiato sul bordo di scogliere
Da dove guardi scorrere la Dordogne
In compagnia di uccelli di serpenti
E del cri di cicale che ami
*
Nuvole fluttuanti del mattino
Rotolate nel mio sacco a pelo
Ho male a svegliarmi
Cielo freddo, alcune case, colline
*
E t'immagino nel silenzio
Selvaggio di questa caverna
Accendere fuochi sul ciglio del vuoto
Il tuo fumo sale verso il sole
Tu sei felice e chiudi gli occhi
Nella forza nascente del giorno
*
Si fila attraverso la Spagna
Muscoli irritati, ubriachi di stanchezza
Gli insetti gracchiano, gioia vigorosa
Vento chiaro, ronzio di conversazioni
La strada s'immerge attraverso la grande pianura accesa
*
E t'immagino nel sogno
Selvaggio di questa notte d'estate
Solo nel profondo segreto della pietra
Donde fai cantare le corde del tuo arco
I suoni si perdono all'infinitop
Ed è così che tu adori l'universo
*
Mille nuvole, sole già alto
Erbacce, polvere fine, la strada profuma
Noi parliamo, scherziamo
Spirito chiaro, Lisbona appare
Questa pura gioia del giorno, a che assomiglia?
*
E t'immagino nel sogno
Selvaggio di questo pianeta
Solo e felice di eternità
Tu guardi a lungo il cielo crivellato di stelle
Vecchio uomo venuto dagli astri
Tu ami l'universo che è il tuo dio
*
Percorro Lisbona sacco in spalla, i grandi occhi aperti
Rilucenti di sudore, stanchi
Di nuovo solo, nel polverìo del sole
Già vedo il Tage, mille dita s'agitano, cielo immenso
Strade polverose, capelli al vento,
Assaporo la luce pura, immacolata
Una volta ancora rivedo la mia vecchia vita
Vita magica, lasciatemi in pace
Ah! questa chiara gioia
D'esistere
Lontano dagli uomini
.
Bruno Sourdin (traduzione di Felice Serino)
DALLE POESIE DI ANTONIA POZZI
Secondo amore
Piansi bambina, per un mondo
più grande del mio cuore,
dentro il mio cuore
rinchiuso – morto;
piansi con occhi giovani,
penosamente arsi arrossati –
e sola vicina alla terra
domandavo agli oggetti muti,
alle radici dei fiori divelti,
alle ali degli insetti caduti,
il perché
del morire.
Mi rispondeva la terra, fedele,
prima ancora che fosse
primavera colma,
da anni e secoli – sotto un arbusto
con una pallida primula
rifiorita.
E in essa era la linfa,
era il respiro – di tutte
le primavere perdute,
in ogni fiore vivo la bellezza
degli innumeri fiori
spenti.
Oh grazia – ora dico –
del secondo amore,
giovinezza profonda intessuta
di vinte vecchiezze, di esistenze percorse –
– ed ogni esistenza, una ricchezza
conquisa, ogni pianto deterso
un sorriso più lungo imparato,
ogni percossa, una carezza più lieve
che si vorrebbe donare –
oh benedetto il mio pianto
– ora dico –
benedetti i miei occhi
di bimba, arrossati riarsi –
benedetto il soffrire, il morire
di tutti i mondi che portai nel cuore –
se dalla morte si rinasce
un giorno,
se dalla morte io rinasco
oggi – per te,
me stessa offrendo
alle tue mani – come
una corolla
di dissepolte vite.
4 dicembre 1934
*
NEVAI
Io fui nel giorno alto che vive
oltre gli abeti,
io camminai su campi e monti
di luce –
Traversai laghi morti – ed un segreto
canto mi sussurravano le onde
prigioniere –
passai su bianche rive, chiamando
a nome le genziane
sopite –
Io sognai nella neve di un’immensa
città di fiori
sepolta –
io fui sui monti
come un irto fiore –
e guardavo le rocce,
gli alti scogli
per i mari del vento –
e cantavo fra me di una remota
estate, che coi suoi amari
rododendri
m’avvampava nel sangue –
1 febbraio 1934
In “Parole”.
*
Alberto Toni
Mare di dentro e altre poesie
*
Da Mare di dentro
Puntoacapo Editrice, 2009
[testi proposti nella rubrica Poesia Condivisa su poesia2punto0 ]
Piove a dirotto e là sullo scoglio
dei miei segreti c’è tutta la solitudine
del mare. Sì, eccomi piccolo e solo
mentre mi giro intorno, amore. Sai
la fatica delle parole che ritornano
a frotte nei giorni della conta e del
destino segnato. Inseguo l’altra faccia
della medaglia, la lieve incrinatura
del legno.
*
Da: Alla lontana, alla prima luce del mondo
Jaca Book, 2009
Alla lontana, alla prima luce del mondo
Alla lontana, alla prima luce del mondo,
quando per te è giorno, moglie mia, io ti
ricordo dietro la benda che mi copre e mi
vieta di esistere. Sarà giorno, è vero, come
quando facevamo colazione nella stanza
sul giardino. È un po’ che non sento piangere
i figli dei vicini, la piccola aveva un anno
quando sono partito. Il rumore qui sopravanza
di gran lunga il cielo e l’infanzia. Il nero di notte
è nero, alla fuga, ai lampi, di maceria in maceria,
rompe il sonno che non è sonno. Non so che fanno
i soldati di là dal fiume, so che mi tocca rispondere.
*
Da: Inediti, 2012
Stasera non c’è molto da fare.
I richiami giungono morbidi come se
non dovessi ascoltarli. Sì, torna, ché
se ti allontani potresti perderti,
sparire in un abisso senza ritorno,
l’altro potrebbe per sempre chiudere
la visione del cuore, decidere di partire.
Là dopo i cento metri di verde c’è
l’occhio vigile della città, lo sapevano tutti i visitatori.
*
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Davide Morelli
Da: Dalla finestra
ALL’IMBRUNIRE:
C’è un sovraccarico di segni
a quest’ora del giorno.
L’aria si fa più fine.
L’animo fa il calco
di questo tramonto.
Tutto passa, anche il passato.
Ma non dirmi il sottinteso, il traslato.
Sembra che non ci si possa esimere
dall’hic et nunc, dai rebus insolubili,
dalle associazioni di idee,
dalle giaculatorie brevi ed ingenue,
che avvitano la mente all’imbrunire.
*
LA LUCE DEL MATTINO:
La luce istoria il pulviscolo
(sono uno dei tanti commensali
dell’ alba, della luce del mattino).
*
TROPPO PRESTO:
L’oscurità inghiotte la città.
La notte capovolge la realtà.
Ritorna un fantasma dalla memoria:
ricordiamo insieme una triste storia.
È morto giovane. Troppo presto.
Restano pochi gesti, poche frasi.
Restano solo pochi aneddoti:
finiranno nel nulla dopo di noi.
Il vento fa da perno al rumore
delle cose e delle nostre parole.
*
IN NIENTE:
Mi chiedo cosa ci sto a fare
io che purtroppo non credo in niente.
Forse è un qui pro quo, uno scambio
di persona; forse un puro accidente
o per scrivere qualche telegramma.
Forse qualche lettera rispedita al mittente.
*
GIROTONDO:
Il dolore rimanga sullo sfondo.
Facciamo un macabro girotondo.
Andiamo oltre l’orrore del mondo.
*
POLVERE:
Noi siamo polvere per i millenni,
ma viviamo di sguardi, gesti, cenni.
*
ALTROVE:
Cerca e trova pure parole nuove,
ma sappi che la vita è altrove.
*
UNA SERA:
Freddo è il mattino. Fresca è la sera.
È l’ora che la vita si invera
nella meraviglia dell’esistente.
Noi attraversiamo l’ultima luce
e un’aria intrisa di parole.
*
SOLITUDINE:
Colui che ama la solitudine
finisce spesso con il cadavere
putrefatto sul divano di casa.
Gli altri condomini alla fine
si accorgeranno della sua morte
da certe esalazione putride.
Io non ti so dire se è più triste
morire da soli o avere gente
al capezzale. Davvero non lo so.
La morte è sempre inaspettata
e purtroppo ci coglie sempre soli
anche quando si muore tra la gente.
*
COME RAMARRI:
I ramarri correvano veloci
sugli argini. Lottavano tra loro.
I maschi mordevano le femmine.
Il tramonto irradiava i nostri volti.
La nostra campagna non era altro
che un’intermittenza di luci e voci.
L’amore era la questione cruciale.
La morte era una questione lontana:
una cosa da vecchi o una disgrazia.
*
PER INERZIA:
Scorrono i titoli di coda del giorno.
I figuranti diventano protagonisti
solo nella cronaca nera.
Tutto ora procede per inerzia
fino a che uno sciocco dettaglio
ci sembra capovolgere il mondo.
*
IL MIO MONDO:
So la traiettoria delle rondini,
la forma bizzarra delle nuvole
rasentate dal volo degli stormi.
So che il sudario del tramonto
si adagia sempre sulle colline.
Ma questo mondo di andate e ritorni
non passa più dalla cruna dell’alba
e le idee non sono resistenti
come gli esili fili dei ragni
(la polvere è un groppo di morte,
che attraversa tutta questa pianura).
*
NELLA MENTE:
Pensavi di averlo seppellito
ed invece riaffiora casualmente.
Non hai alibi, ma ben più di un movente.
Difficilmente ci si può disfare
di ciò che resta impresso nella mente
(arcata di ponte oppure portone,
epigramma o semplice canzone).
*
IL TESTAMENTO:
È l’ora in cui gli ubriachi si specchiano
nel fondo del bicchiere, i solitari
si affacciano all’abisso o ad un pozzo.
Bisogna abitare l’immaginario,
fare il testamento all’essenza
del fogliame e delle nuvole.
Come si sa le cose che non sono
compatte avvicinano al sogno.
*
LA NOSTRA LIBERTÀ:
Noi siamo animali metafisici.
Potete anche restringere la gabbia,
allungare all’infinito la pena.
Però nessuno potrà mai negarci
questa nostra libertà dell’inconscio,
la meraviglia per le cose attorno,
la continua sospensione tra reale
ed immaginario. Così suppongo.
*
PER ORA:
Pensi che non verranno recisi
i refi del pressappoco e dell’effimero.
Pensi che tutto sia intrattenimento o distrazione.
No. Certo. Non c’è assoluto nella parola.
No. Non si può nemmeno oscillare
tra l’indecidibile e l’indicibile.
No. Non ti interessano la storia
con i suoi popoli e i suoi secoli.
Non ti interessano le migrazioni e le costellazioni.
È meglio avere pochi pensieri.
È meglio essere guardati come una cosa.
Ma noi siamo meno di ombre
e la fiamma arde sempre per ogni vita
fino ad intaccare il nucleo primordiale.
Io non mi ritengo assolutamente innocente
e non aspetto una remissione.
Per ora resisto alle istanze del cielo.
*
I FILI DELLA MEMORIA:
Se noi ricordiamo i nostri morti
in qualche modo ci sono ancora
anche se ormai non esistono più.
Viene quindi da chiedersi ora:
chi è che tiene i fili della memoria?
*
COME UN PINO:
Conti i silenzi ed è inutile come
cercare di ammaestrare il vento.
Come un pino che stilla la resina
io faccio uscire le mie parole.
*
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Gian Piero Stefanoni
Da: Da questo mare
[…]
La tua pace è la sola tua guerra
che sopravvive e ancora risale
da questo mare
che della memoria
affonda anche le lastre.
Non hai nome
ma appartieni alla serie dei nomi
che non sono fra la schiera degli angeli:
il tuo spazio adesso è fra la riva e la terra.
IL TUO SPAZIO ADESSO
è in nessun altro ventre- mareggiato
e concluso
entro una morte venuta per acqua.
Di te da qui non possiamo
ma dobbiamo parlare.
(Del piatto che misura e cancella
la notte. Del salto che ripeti
e in cui ti perdi ogni giorno).
Di te da qui non possiamo
ma dobbiamo rispondere.
(Dalla bocca che incalza
la sabbia. Dal mondo che riveli
ancora nell’occhio).
[…]
… Virgulto
che poi hai tentato, a cui ti sei appeso
come anello a tracciare il confine
del giardino che deve restare sacro,
muto e ignoto ragazzo la cui bracciata
è mancata, la cui statura s’è rotta
nella rena coperto da insetti.
Tu che volendo dire la vita
hai pronunciato la morteti
sei pronunciato alla morte-
dalla pancia di una nave madre
ad un’acqua senza cordone-
incontenibile, inesauribile
che non comprende e che non ha requie.
Che non ha tempo-
e non ha divenire.
Che non ritorna-
e cancella le tracce.
Che non ha termine-
ma solo correnti.
Acqua su acqua- che continua e continua.
Sì, acqua su acqua
che ANCORA continua, sempre
più cupa, sempre più scura
mentre la fame
supera il freddo
ed anche la luna volta la faccia
in una traversata da cui non si torna.
E che il gruppo subisce
compatto, chiuso- in due, tre
o quanti più giorni- in tre,
quattro o quanti più malori- nella cittadinanza
senza cittadinanza, nel nutrimento
senza nutrimento.
Gli occhi solo dei lupi
a cui s’è affidata la carne, per uscire
dalla favola antica.
Ma per cui non vale il racconto
nella parte che mai avrà freno
quando il cielo non riconoscendo le nubi
del mistero teme il respiro
e la corrispondenza della violazione col fuoco
nella necrosi da cui si lasceranno portare.
Qui è il lampo a decidere il tempo
e il rigetto, nella divisione veloce
di umano e non umano.
Qui è la parola a nascondersi
ed è per questo che il canto non sale:
non può, NON DEVE,
il battito
reciso al suo metro.
[…]
Eppure- accade- il vero male,
la vera morte, è nella fatalità del male
nella fatalità della morte; l’accettazione
oscura che poi il cuore confonde
e divide, possiede, ognuno dell’altro
non riscattando la perdita.
Così, per spegnimento avviene
la resa, per contenzione, nella deriva
non ricordando l’inizio o il motivo
dell’offesa della carne ai suoi figli
se al tempo nessuna coscienza è ridata
e nello spirito lo spirito più non rifrange.
Ché senza rete è la pesca, che rompe
l’illusoria barriera del gruppo e batte
secondo lo squarcio; che recide
e colpisce nella fissità del terrore
i primi, soli, animali sorpresi.
Come te- tra le alghe e la forra.
Come te- il cuore impazzito,
le mani, i piedi ed il busto
slegati,
la vita in uno spazio non suo.
Come te- che solo d’acqua hai imbevuto
i polmoni in prossimità del vicino respiro.
Che solo l’affondo ha raccolto-
[…]
Mare, e suolo, che non incontra
più il suolo, che non incontra più il mare
in una unione che non si rinnova
se non per frattura e lacerazioni;
FERITE che ognuno ha già segnate sui tendini
nell’imposizione data alla corsa,
nell’orizzonte forse
che non ha stazioni alla curva.
E dove la negazione
per occlusione agisce, abusa, oscurità
spargendo
e spregio-
al fuoco non bastando mai cenere.
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Antonia Pozzi
Bellezza
Ti do me stessa,
... le mie notti insonni,
i lunghi sorsi
di cielo e stelle – bevuti
sulle montagne,
la brezza dei mari percorsi
verso albe remote.
Ti do me stessa,
il sole vergine dei miei mattini
su favolose rive
tra superstiti colonne
e ulivi e spighe.
Ti do me stessa,
i meriggi
sul ciglio delle cascate,
i tramonti
ai piedi delle statue, sulle colline,
fra tronchi di cipressi animati
di nidi –
E tu accogli la mia meraviglia
di creatura,
il mio tremito di stelo
vivo nel cerchio
degli orizzonti,
piegato al vento
limpido – della bellezza:
e tu lascia ch'io guardi questi occhi
che Dio ti ha dati,
così densi di cielo –
profondi come secoli di luce
inabissati al di là
delle vette –
4 dicembre 1934
*
Pausa
Mi pareva che questa giornata
senza te
dovesse essere inquieta,
oscura. Invece è colma
di una strana dolcezza, che s'allarga
attraverso le ore –
forse com'è la terra
dopo uno scroscio,
che resta sola nel silenzio a bersi
l'acqua caduta
e a poco a poco
nelle più fonde vene se ne sente
penetrata.
La gioia che ieri fu angoscia,
tempesta –
ora ritorna a brevi
tonfi sul cuore,
come un mare placato:
al mite sole riapparso brillano,
candidi doni,
le conchiglie che l'onda
lasciò sul lido.
7 dicembre 1934
*
L'àncora
Sono rimasta sola nella notte:
ho sul volto il sapore del tuo pianto,
intorno alla persona
il silenzio – che sul tonfo
della porta richiusa, a larghi cerchi
si riappiana.
Lenta nell'acqua oscura
del cuore –
lenta e sicura,
tra le alghe profonde
gli echi delle tempeste le lunghe correnti
le molli ghirlande di onde
intorno a inabissati
scogli –
lenta e sicura,
fino alle sabbie segrete giacenti
sul fondo dell'essere –
fida tenace, con i suoi tre bracci
lucenti
penetra l'àncora
delle tue tre parole:
– Tu aspetta me –.
16 dicembre 1934
*
“PERIFERIA IN APRILE”
Intorno aiole
dove ragazzo t’affannavi al calcio:
ed or fra cocci
s’apron fiori terrosi al secco fiato
dei muri a primavera.
Ma nella voce e nello sguardo
hai acqua,
tu profonda frescura, radicata
oltre le zolle e le stagioni, in quella
che ancor resta alle cime
umida neve:
così correndo in ogni vena
e dici
ancora quella strada remotissima
ed il vento
leggero sopra enormi
baratri azzurri.
(24 aprile 1937)
*
ANTONIA POZZI
Evasione
La strada porta tra case oscure –
ma in alto
salpo dal braccio candido
del valico, come da un molo –
lascio nella terrena ombra
i faticosi lumi degli uomini,
il loro fioco alone
sulla neve.
Via – negli occhi raccolta
la gioia dura d'essere
creatura in sé conchiusa,
unica nel freddo cielo
invernale –
diritta ai piedi
d'invisibili antenne,
sulla nave che ha vele di nubi
e fari di stelle,
a prora un volto
d'attesa.
11 gennaio 1935
*
(ad A.M.C.)
Dai viali, a fiotti, corre sullo spiazzo
una fragranza amara d’oleandri.
Roma, immensa, s’abbuia a poco a poco,
sfiorata di rintocchi. Non un volto,
né una voce, né un gesto afferro intorno:
solo l’anima tua, solo il mio amore,
sbiancato dalla tua purezza. In breve,
nel cielo smorto di sfrenata attesa,
proromperà un rimescolio di stelle.
(Roma, 27 luglio 1929)
[In Parole]
*
MONTAGNE
Occupano come immense donne
la sera:
sul petto raccolte le mani di pietra
fissan sbocchi di strade, tacendo
l’infinita speranza di un ritorno.
Mute in grembo maturano figli
all’assente. (Lo chiamaron vele
laggiù – o battaglie. Indi azzurra e rossa
parve loro la terra). Ora a un franare
di passi sulle ghiaie
grandi trasalgon nelle spalle. Il cielo
batte in un sussulto le sue ciglia bianche.
Madri. E s’erigon nella fronte, scostano
dai vasti occhi i rami delle stelle:
se all’orlo estremo dell’attesa
nasca un’aurora
e al brullo ventre fiorisca rosai.
(Pasturo, 9 settembre 1937)
[In Parole]
*
Canto selvaggio
Ho gridato di gioia, nel tramonto.
Cercavo i ciclamini fra i rovai:
ero salita ai piedi di una roccia
gonfia e rugosa, rotta di cespugli.
Sul prato crivellato di macigni,
sul capo biondo delle margherite,
sui miei capelli, sul mio collo nudo,
dal cielo alto si sfaldava il vento.
Ho gridato di gioia, nel discendere.
Ho adorato la forza irta e selvaggia
che fa le mie ginocchia avide al balzo;
la forza ignota e vergine, che tende
me come un arco nella corsa certa.
Tutta la via sapeva di ciclami;
i prati illanguidivano nell’ombra,
frementi ancora di carezze d’oro.
Lontano, in un triangolo di verde,
il sole s’attardava. Avrei voluto
scattare, in uno slancio, a quella luce;
e sdraiarmi nel sole, e denudarmi,
perché il morente dio s’abbeverasse
del mio sangue. Poi restare, a notte,
stesa nel prato, con le vene vuote:
le stelle – a lapidare imbestialite
la mia carne disseccata, morta.
(Pasturo, 17 luglio 1929)
*
Africa
Terra,
sei di chi affonda
nella sabbia le mani,
in un'esigua conca
pianta un ulivo.
Non hai strade: misuri
il tempo del cammino
con la distanza dei pozzi,
cippi sono
le bianche tombe dei tuoi santi
nel deserto.
Non hai bàratri: proteso
è il tuo colore biondo
senza confini.
Abbeverate di cammelli chiamano
lembi di cielo
sul tuo volto scoperto.
Cielo
che dilati le stelle,
vento – che imbianchi
d'eucalipti le sere,
o terra,
cielo vento –
libertà
di sogni.
28 gennaio 1935
*
Armando Tagliavento
(Hermann)
Da: Una vita a pezzi
Antologia di poesie a cura di Ennio Abate
Montecassino (Montecassino, FR)
La strada sembra voglia
lambire una rocca di sassi
che ammalapena si sbroglia
a mutoli passi
e si perde nelle rupi
dove carogne e lupi
mi spolpano il cuore, muffo.
*
Lanciano alle spalle Villa delle rose (Lanciano, CH)
I fiori e le foglie
affogati nel sole;
un pallone giocato
in un campo vuoto.
Una rete senza porta,
la Villa delle Rose ricorda
la sera fredda morta;
crudele si gira la vita;
la giornata è finita,
ha chiuso la porta.
*
Crepuscolo (Milano)
Il sole galleggia sul tetto
del caseggiato dirimpetto
e s’affoga dietro il comignolo
come un nero morente lucignolo
smorzato d’amore inetto.
Stasera fuma odio il mio caminetto;
cala la notte, è buio, giro il grilletto
e mi getto sparato nel letto.
*
Addio amore! (Fossacesia, CH)
Come un’immane salacca14
l’onda spacca
la riva selvaggia.
Risacca con rabbia l’acqua
la morgia di lacca;
assaggia il sole cocente
la rena giallina.
Col viso di mera bambina
la donna ricama una rete
pescosa per catturare
lo sposo in salamoia.
Seduta all’ombra perenne
la bimba carezza il mare,
che si ribella con schiaffi
bagnati di lacrime nere.
Che pena vedere i marosi
spumare azzurri volumi
di niente.
L’uomo si uccide con lei,
veleno ai denti.
Come viene la sera, eppoi la notte
crudele, dormiamo sotto il manto
con lei, la morte serena.
Con smorfia l’acqua vuota e fredda
mina il cuore.
Sulla spiaggia si gioca l’onore
l’uomo che ti crede ancora,
serpe piena di fiele!
____
14 Aringa.
*
Ansia (Fossacesia Marina, CH)
Corri da me sulla spiaggia,
dea lucana!
I tuoi seni in guaina
hanno la forma
di poponi aulenti.
Io pezzente d’amore
ti chiedo un bacio di mare.
Tornami a mente,
vieni a starmi vicino,
corpo di melagostana.
Sulla maretta il tuo viso
montano si specchia
in occhi ippocastani.
Pazza colpisci i miei
in una tazza di latte;
senti il mio cuore che batte
per te?
Ora ti copri tutta
col bel vestito di sole
e t’avvolgi nella verde sottana,
torna da me, Dea lucana!
*
Mariuccia (Ortona, CH)
Il sole ti pitta gli occhi
lustri.
Incollata alla bitta
la nave emette un lamento.
Si parte, è l’ora
di andare alla morte.
È un orso cecato
il tuo seno d’attracco,
una piovra gigante.
Se batto il vento a scopone
scientifico con false carte,
muoio sul molo,
aspettando te,
solo.
*
Amore (Fondi, LT)
Quando non posso riposare
nelle lenzuola di sasso,
scrivo e penso a te.
Intingo la penna di stoffa
nella tua boccuccia di saccarosio
componendo su carta mielata
frasi assai disperate.
Punti non metto, virgole nemmeno,
lascio ai ragnetti lavoratori
cucire le trame d’amore
coi loro teli infarinati.
Anche stanotte ho lavato
la biancheria
coi miei pensieri salati.
Se mi dai il cielo,
lo tramuto in veste lillà,
se mi offri il mare, invece,
non posso che baciare
il tuo faccino ovale.
*
Santanastasia (15-7-78, Fondi, LT)
In pieno sole
esco dal sogno macchiato;
non riposo nel verde sereno del mare;
un mezzo mi porta lontano,
spiaggia natura.
Tra i ficocci61 la vipera dolce
morde il seno alla Vergine santa.
Una capra con pizzo e gitani lobati
bela canzoni salate.
Le civette sono gelose
del sole dunale;
ecco le barche a vapore sciare
sulla tua faccia crudele.
Il costume del marocchino
che ride di beffa
è la paranza allumata dal sole beato.
Il mare inonda le sedie volanti.
Il vento leggero smuove
la tua coscienza di latta.
_____
61 Fichi?
*
Terra (Milano)
In una fetta di terra
lascio i miei anni a pensare.
I fiori non sono maturi
dentro la cuna legnosa.
La selva del corpo mio
bruciata dal farmaco sozzo.
Nuvole scure coprono
il mio spessore.
Calano ribelli dal cielo nerastro.
Appena morrò, vola la croce
sui mari.
Bella la via della virtù.
Un giornale ventaglia
la mia segreta esistenza.
Pesco con larga rete
miseri squali:
baraonde di tristi bugie
in mausolei baccanti.
Donne briache fanno quadriglie
a braccetto.
Ride la morte serena
nei campi
dei grilli
contenti.
*
La vita (Milano)
Più dell’aria e più dell’acqua
sei leggera; il tuo corpo
è la traccia del mio cuore.
Nero è il cielo stamattina, tetrogialla
la terra.
Il gallo di vetro ha lacerato la notte
col suo canto di livore.
L’acqua sorte a sbruffi di sangue
dai miei occhi frolli
e parla cattivo col tempo di fango.
Il vento ci vede e domanda:
“Chi sei tu, che mi passi davanti
sul bianco cavallo?”
“Io sono io!” gli rispondo.
E con un pezzo di gesso rotto
e fatto a matita disegno il suo nome,
le labbra spellate di lei,
il blasone delle sue tenere cosce,
sulla lavagna del cielo abbruciato.
Sulla porta tabù della sua vita
lontana scalfisco il mio nome,
infino a fare vestire di sangue
la lama arrotata del mio temperino
di pietra. Ma la pietra è il tempo,
è il vento, secoli di vento.
Gli alberi umani sono il tempo;
il cuore della gente è di pietra.
Il vento fa nuovamente ritorno
e mi ridomanda di te,
che volando vai nel cielo di ferro.
*
Riflessione (Milano)
Mentre bevo una tazza di birra vedo,
oltre la tendina di un bagno,
una coppia che s’ama nuda e laboriosa;
si avvertono nette quelle membra sudate.
Mentre, dentro un’auto urtata,
un’altra coppia giace a brandelli,
insanguinata.
*
sito web di provenienza: www.ebook-larecherche.it
VALERIO GRUTT
Da: “Una città chiamata le sei di mattina”
Farei l'alba e le linee del cielo
con i segni lasciati dal cuscino
sul tuo volto appena sveglia, meraviglia
che ti togli dal sonno e vieni come gli uccelli
di giorno, la tua risata è chiamare il bene
per nome, alzi le reti dei fiori con lo sguardo.
Il fuoco e i confini, le sere gialle hanno la brezza
del tuo respiro, io ti sento esistere nel vento
che piega gli ombrelli, nel petto aperto
contro la notte che si abbassa addosso.
Voglio essere con te l'onda che s'alza
e si fa nuvola, fare come il polline chiaro
sui campi e la luce che libera gli angoli.
Sito dell’autore: www.valeriogrutt.org
http://spaziopoe.blogspot.it/2012/06/valerio-grutt-una-citta-chiamata-le-sei.html#links
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SALVATORE D’AMBROSIO
Immutabile apparenza
C’è una precisione di distanze
un equilibrio di misure
una geometria perfetta in sapiente
calcolato rapporto tra luce e buio
preordinato assetto dell’immutabile apparenza
matematiche esattezze sconosciute eppure certe
nell’invisibile mondo oltre il potere dell’occhio
dove l’esistere di pianeti orfani di stelle
solitario vagare nello spazio
Qui dall’altra parte
dove coperta di cielo poco riflette
precisioni distanze equilibri
solo vagare non altro
senza mai trovare di brillio riferimento
o dei passi l’orma permanente
link di provenienza
http://spaziopoe.blogspot.it/2012/04/due-poesie-di-salvatore-dambrosio.html#links
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IRENE ESTER LEO – Un inedito
Vive in noi la duplice maledizione.
Il falco e la formica,
nella fratellanza della nascita
graffiano nei cardini divelti.
Il nord albeggia,
spinge verso l'alto
e insegna alle tempeste,
alla pioggia
ad allagare l'occhio
e l'artiglio ben oltre.
Il sud ci atterra
sino alla sottomissione aulica,
radice che si abbandona
alla dolcezza,
carapace di argilla,
precoce odore di pane,
nell'ora delle nascite.
link di provenienza
http://spaziopoe.blogspot.it/2011/09/irene-ester-leo-un-inedito.html#links
GIOELE E MARTINA, un poemetto di GIUSEPPE VETROMILE
Gioele e Martina
Canto primo
Gira il vento un’altra pagina del giorno
anche da queste parti è l’imbrunire
la terra è tutta scura e stanca o Signore
ecco è l’ora di pregare in un ultimo
millimetro d’angolo di luce prima del
disfarsi del sole dietro i Camaldoli
con te Martina pregherò attendimi
al crocicchio stasera alle otto dopo
essermi diluito lungo il tramonto
appiattito a ridosso dei muriccioli
sgretolati del quartiere nessuno
mia cara potrà avvertire la mia
ala silenziosa sorvolare il respiro
trasparente del cielo stellato
Per me Martina sarà bello il solito
tuo spuntare dall’amalgama di folla
ribollente dietro l’ansimare del freddo
avventuroso vagone tranviario giù
alla fermata obbligatoria della
Stazione Centrale il nostro arcano
appuntamento al bivio del giorno
trascolorato in un impeto di
sragionato immenso amore
Per raccontarti tutto questo azzurro
ho ascoltato molte volte l’allodola
rinchiusa nel suo volo sopra i grigi
prati della fabbrica d’automi laggiù
in fondo all’allegria gratuita e non
poteva più uscirne libera che a sera
insieme a me e a mille altri fuggitivi
oltre gli schemi dei cancelli automatici
ho sopportato a lungo montagne di delitti
da ore immemorabili vedevo il cielo
e il sole morire dentro le inutili
stagioni del cuore imprigionato
Mi dissero pure che altro vuoi Gioele
da questa diritta vita di cemento
e di blandizie surrogate ? Il Giardino
delle Esperidi non è certo dietro l’angolo
accontèntati dunque di questo breve
viaggio giornaliero senza meraviglie
e senza caso dall’oggi al domani
senza incertezze io credo allora
che la polvere dei giorni stia piovendo
sul nostro inamovibile cuore ormai
inevitabilmente
Canto secondo
Nelle mani l’anima della città sfiorita ogni
passo una memoria di ciclici motori il
cigolio del tram nella stretta curva di
Piazza Vittoria questa frenesia di volare
sui bassi parapetti verso il mare ora
è tutta chiara la chimera in quest’angoscia
che ci sorprende sul margine di nafta
della scogliera appuntita ferma
da secoli a fermare l’impeto dell’onda
che lambisce grigia limatura probabilmente
la luna s’è spenta più volte tra
questi segreti anfratti putrescenti
regalando nastri d’argento ai pesci
in amore silenzioso noi non vediamo
ormai che i riflessi guizzanti di quel
lontano estraneo mondo sommerso
Ritrovarti quindi sul breve porticciolo
fitto di bitte è stato un refrain inaspettato
alla fine d’un tramonto colorato di mille
fiori profumati e lontano da questa
eterea spiaggia ho deposto per te
Martina la mia quotidiana attrezzatura
limato le unghie del lavoro staccato il
marcatempo aziendale aperto a caso
il mio taccuino da poeta ed ora spira
il mio canto dove più profondo è
lo sguardo dei tuoi occhi di smeraldo
nella fioca spenta luce dei lampioni
ritrovo l’allegria dei tuoi sorrisi il diletto
d’una età perduta oltre il diaframma
dei rispettosi canoni del quieto vivere
Mormora piccole storie la conchiglia
sul canto gaudente di risacca giù
alla marina il tempo breve d’un tuffo
nelle acque smeraldine l’impronta d’un
fiore di madreperla sul bagnasciuga
una reliquia da portarsi al collo
quanto più vicino al petto una corona
d’alghe profumate di salsedine una
stella marina unica fenice del
nostro isolato atomo di mondo
solitaria perla in uno scrigno d’osso
colmo d’amarezze e di rimpianto
Volava così l’airone sul lago oscuro
dei sogni cercando possibili approdi
su un letto acuto di canne barbare
appena un dolce stretto isolotto
di spugne senza lacrime né dolori
imbevute solo di eterna melassa
e noi lì a incutere timore ai rospi
dell’intricato canneto altro non so
mia cara se la morte a pelo d’acqua
privasse i loro corpi delle ali
per innalzarsi verso il più profondo
degli azzurri
Canto terzo
Gronda umide attese il pianerottolo
al terzo piano nei tramonti innumerevoli
nessuna stagione muta accanto ai fornelli
ghirigori di mille sapori umori e suoni
misti dal fondo delle quattro stanze evocano
pieghe di sicure felicità oltre il confine delle
favole scopro un abbandono atroce tutte
le volte che manchi dall’angolo sghimbescio
tra il tavolo e la tivvù assaporando
l’amarezza d’una solitaria regina tuttofare
imbrigliata in meccaniche faccende ma
io ti so Gioele nei meandri azzimi
a risolvere le formule del giorno con
l’atrio grezzo del tuo cuore mentre
con l’altro mai argini la dolce voce
di Erato sul bordo silenzioso della
tua vespertina scrivania quantunque
dicano bene tutti gli altri condomini
caro Gioele che vuoi che sia una
poesia al totale della sera vedi
mancano molti addendi non potrai
mai elencarli come le stelle nell’abisso
misterioso o come Dio nell’intercapedine
delle infinite parole ideate giusto a
presentarlo noi abbiamo solo te
e me all’ora della cena e forse
un’altra luna il sabato sera nella
penombra della radio potrà regalarci
un sogno alla deriva abbracciati insieme
su una zattera d’amore rilegato trascorrerà
la notte senza nome o mio Gioele eppure
così unica non ripeterà mai più
gli stessi baci
Un sogno benedetto amore mio e
così sia indovinando il tuo ritorno
ogni sera frequente e puntuale dai
deliri quotidiani io so che tu saltelli
in un silenzio di colori sulle ventimila
mattonelle ben squadrate della fabbrica
locale dove muta la materia e si fa
mobile ma s’arresta l’anima e il cielo
dietro uno scaffale eppure io Gioele
non ho una poesia che guarisca
ed asciughi le mie mani dal bucato
vesuviano non ho un minimo di verso
che liberi il cuore dal buio dei rottami
e dei rifiuti variopinti in questa casa
circoscritta da mille regole vitali
non ho che i quattro conti della spesa
e il caffè da preparare tra una
novella e l’altra alla tivvù le rughe
distendendo in un disciplinato
rabbioso pianto di pace
Canto quarto
In una catena di giorni uguali
tutto è rovina di clangori e alto
rumore di fondo né luce né tepore
lungo la via del Santuario fino
all’ossidato centro cittadino dove
è fumo denso la fretta dei passi
trema la terra sotto il peso del
gonfiore di cemento e cartastraccia
l’immondizia è fiore deturpato
mostra la sua corolla d’olio unto
ai tristi treni scivolanti sul
selciato blasfemo nitriscono solo
vecchi neri destrieri ansimanti
invadono la cala ottocentesca
monelli batraci di periferia ed io
dal Vomero su frammenti di traffico
precipito lento goccia di sabbia
nella clessidra del basso abitato
o mia dolce Martina è questa
la strofa che canto a voce alta
dietro i dirupi del cuore e nutro
la mia carne verosimilmente
di queste vettovaglie altrimenti
morirei nascosto dalla luna
sotto gli scogli
Non dire una parola già grassa di
retorica ne è piena l’aria della
bocca senza cuore guardami dentro
la pelle e ascolta i passeri sopra
il davanzale zincato del tramonto
quando si espandono i pastelli
della sera nel cielo che attende il
riposo del bagliore appiccicoso
osserva o mia dolce casalinga come
tornano i colombi alle grondaie
noncuranti delle navi per i vasti
oceani di scorie alla deriva
vortico anch’io e tu lo vedi tra
mille onde nei cieli favolosi di
splendore denutrito e mai approdo
ad un’isola diversa dalla mia
scrivania tentando di cucire
tasche di versi agli abiti del
pensiero riponendovi qua e là
notizie vaghe sul nostro
programma esistenziale
Perciò non credere che io finga
preghiere quando piango nei
sogni non è lacrima malata ma
dolore di atomi centrifugati dal
nocciolo del dubbio che altro sia
questo giaciglio tenero d’attesa
verso il solito ufficio del mattino
o mia compagna vesuviana non so
eppure esattamente ogni risveglio
s’insinua una lamina di sole
sopra l’oscuro comodino
Canto quinto
Sui paesi vesuviani sbadiglia l’ora del
risveglio non è come a Sofia o nel
Queensland dall’altra parte del
possibile anche se l’intrico di sole
tra le persiane semiabbassate
può essere lo stesso qui la vita
è di Gioele che si gioca per le strade
entro l’orlo della circoscrizione
tuttavia s’annuncia bene la giornata
dopo il lento consumarsi della luna
nella traiettoria dei sogni inventariati
nell’agenda prima delle croci
nonostante tutto è ancora fresca
la rosa sul balcone e peduncola
il misero ragnetto lungo l’architrave
da ieri non ha concluso ancora
la sua rete né reliquie di rugiada
resistono nei pochi rossi calici
giù nell’erba misteriosa un randagio
annusa speranzoso tra le piante
ignote mai curate
Chi vivrà vedrà Martina mia nell’estate
sarà nostra la feriale avventura verso
i lidi occasionali se anche quest’anno
sarà vuoto l’alambicco che ne diresti
dei soliti passeggi lungo i viali vesuviani ?
Piccolo e breve è il nostro potere d’acquisto
in questa piazza d’affari sgargianti
e il clangore delle monete risuona
smorto nei nostri sogni sempre
vaporosa è la festa della domenica
in un canto di clacson e di campane
verso il porto dei miracoli promessi
nell’odore di frittelle trovi a volte
l’incenso della Messa confusa dal
suono degli organi e dei pulpiti nel
palpito impaziente si consuma la
mezza mattinata e poi langue il
dopopranzo su un primo assaggio
di un’altra sera fallita che ne diresti
di una gita a mezzanotte ? A Mergellina
lungo il molo dove t’incontrai nel
primo amore ora suonano i marosi
e il parapetto odora di lerciume e di
taralli e noi forti caparbi dalle vetrine
del mare sotto le stelle estrapoliamo
l’antica storia della nobile Sirena
In ogni caso è questa la discesa altro
non potevamo essere che semplice
poesia in questo bagno di materia
sarà meglio soffrire le mille partenze
per l’ufficio l’infinita gloria dei piccoli
limoni spremuti sul bollito o il gusto
d’un caffè al bar del Santuario prima
che il cuore urli il suo grande no
definitivo ai raggi dell’ultima luna
sopra il serale comodino
link di provenienza
http://spaziopoe.blogspot.it/2011/08/gioele-e-martina-un-poemetto-di.html#links
“rapida e serena l’anima ringrazia”, due poesie di Michela Zanarella
L'anima ringrazia
C'è un amore in me
necessario come una madre,
necessario come un silenzio
che calma le statue, i luoghi,
i sensi.
Dolce tra le fiamme
un sorriso si fa palazzo
sulla spiaggia di un istante.
Di fronte ad una luce maschile
calda
sdraio la sete di un bacio.
Mi sento tra la grandezza
ed altro mare,
ora e vita - musica verde -
sullo stare a cuore spalancato.
E da una parte all'altra
di un cortile di ciglia,
rapida e serena l'anima ringrazia.
Chi ama
Lontana da te non esisto.
Il saperti sul mio seno
in un angolo a stendere il tuo azzurro,
è necessario come un susseguirsi
di stagioni.
Non so, ma la vita è misera
come un secco ruscello d'agosto,
senza il tuo fiato accanto.
Chi ama è ricco in tutto il corpo.
E al suono d' acqua non vuole altro.
link di provenienza
http://spaziopoe.blogspot.it/2011/07/rapida-e-serena-lanima-ringrazia-due.html#links
“Ora ti trovo discosto oltremare…”, tre poesie di Federica Volpe
Avrei voluto esserti donna tutt'attorno
a sentire il rovistare tra i segreti di soffitta.
Ma tu mi chiedi di esserti al fianco
-come una spina- stretta di silenzio.
Chissà se lo conosci il dolore che fanno
le polveri sulle cose smesse a sbigottire.
*
Ho bisogno del tempo del viaggio per tornare
a concepirti mano che scruta e che non teme.
Vedi, ho contato le tue vertebre come fossero perle
di rosario. Ora ti varco le porte degli occhi
e mi faccio pietra come tra pietre cimiteriali.
Ogni tua costola è una croce d’abbraccio
che gelido ha scaldato il brodo del sangue
che ancora smuovo per questa docile pietà
che mi riporto come un cane fa coi legni.
Vedi, ho risalito i tuoi tendini boschivi in cerca
della fuga. Ora ti trovo discosto oltremare
e mi faccio isola come tra isole fluviali.
Ho bisogno del tempo del viaggio per tornare
a concepirmi mano che scruta e che non teme.
*
Ti sento dentro a crescere i miei inverni,
a tramutare il porto in ossidiana. I pesci
non necessitano di pinne dell'andare
-pinna è solo ancora che cura, che rimane
ma non muore, come pozzo di premure-.
Tu sei l'inverno, il porto, il pesce, il pozzo,
tu sei l'ancora che porta senso
al deserto d'onde del mio stare.
link di provenienza
http://spaziopoe.blogspot.it/2011/07/ora-ti-trovo-discosto-oltremare-tre.html#links
Roberto Maggiani
Spazio espanso
I
IL FORO
Il foro
Sul piano lucido del comodino
mi sembra di scorgere un piccolo foro
è da lì che immagino entrare nel Cosmo
le leggi da cui hanno origine i fatti
e le storie del mondo –
i codici cifrati della vita.
Ma chi lo aprì quel foro
quel barlume interiore
da cui si avviò ogni mia visione?
*
Indeterminazione
Se misurare con precisione
aumenta un’incertezza
il mondo galleggia
su un mare di probabilità
Essere o non essere
è il dilemma che già fu dell’Universo –
ma in un istante
di incertezza energetica
cadde nell’esistenza.
Chi lo spinse?
*
II
ORIGINI
La vita è un ingegno molecolare ben calcolato
sul bordo di un abisso arretrato.
R. M.
Forma autonoma
La vita è materia
con dentro un pensiero:
si osserva e cura se stessa –
materia che mangia materia –
si organizza e spera.
*
La fabbrica dei viventi
1
I viventi sorgono dalla terra.
Dalle molecole alle cellule
aumenta la complessità in riduzione di entropia –
fino a comporre un uomo con istruzioni antichissime
dalla fabbrica dei viventi.
2
Sono nato anch’io
in uno spazio espanso
all’apice dell’evoluzione –
sottratto all’inesistenza:
composizione chimico-fisica
superlativa –
somma di termini
non uguale al risultato atteso –
qualcosa scontornato dalla materia.
3
Quante forme ha la vita e quanti tempi?
Ogni cellula che perdo mi lascia qui intero.
4
Che cosa facevo prima di essere vivificato?
Non riesco a ricordarlo.
è assurdo pensare l’Universo
senza la mia esistenza –
presunzione della vita cosciente.
*
Stabilità
Che cosa confina
le devastanti potenzialità del Cosmo
nella stabilità
Chi tiene salde le redini del buon senso
Affinché i cavalli del reale non galoppino follemente –
il dolore resti quiescente nel corpo
il grido nella gola
la voragine nella terra
l’altezza nel cielo
la grande onda nel mare
l’elettricità nella materia
l’esplosione nel Sole?
*
III
SPAZIO CEREBRALE
MATERIA NEURONICA
Espansione
L’intelligenza si espande nello spazio del mondo –
come un raggio di luce lo evidenzia
ma non lo comprende.
*
I sogni residenti
Posso con certezza affermare quanto segue:
ciò che io sono non si è mai staccato dal mio corpo
nel quale anche i sogni sono residenti come ricordi –
mai liberi dalla sua biologia.
*
IV
IL GRANDE SCOPPIO
Nessuno sa se il vento trascina la luna o se la luna
estrae un vento dal buio.
Le stanze contemplano la notte con una attenzione estasiata.
Facciamo algebra, musica, astronomia,
una mappa
intuitiva del mondo. Il sussulto,
l’agonia, a volte un mostruoso giubilo,
scatenano
bruscamente il ritmo.
– Un dito tocca i templi, s’immerge così profondo
che tutto il sangue del corpo viene alla bocca
in una parola.
E il vento di questa parola è una espansione della terra.
Herberto Héder
Il tempo pidocchio
Il tempo sta aggrappato alla nostra testa
come un pidocchio ai capelli –
proprio sopra la mente –
non molla la presa – prude:
è un fatto d’igiene.
[…]
*
V
PIANETI
Il falò azzurro
La nostra stella ・calata dietro la montagna –
nell’andarsene della luce risplendono i pianeti.
La Terra va oscurandosi –
una pozza d’acqua riflette il bagliore del cielo:
è un falò azzurro nel silenzio della sera.
*
VI
LUCI SCOLORANO IL CIELO
Non è stato uno schianto o l’esplosione,
nemmeno baraonda o gran fracasso,
ma solo fiato, refolo di vento
appena sussurrato, è cominciato
da lì tutto lo spazio e tutto il tempo,
da un respiro, poco più che questo,
e nascono le stelle ed i pianeti
le pietre l’acqua e i giorni
il tardi e il presto. […]
Giuseppe Grattacapo
Stelle comete
Mani invisibili dall’oscurità
mettono pennacchi luminosi
sul cappello del cielo.
Aster kometes – dicevano i greci –
stelle dalla lunga chioma.
*
Supernova
Una vecchia stella logora
implode
rimbalza ed esplode –
l’onda d’urto dilaga
attraversa l’Universo –
non trova una sponda.
Ma nel cielo della Terra è improvvisa apparizione
di una nuova stella –
un fiume di luce che destina i regni.
*
VII
OCCHI SU ALTRE LUCI
Scrivo per inventarti
quando entri nei miei sogni.
Rafael Angel Herra
Caduta
Sono qui a scrivere di stelle e particelle
di bolle di big bang ed espansioni inflazionarie
di ciò che forse è stato o non sarà mai.
Ma poco più in là cado nell’amore:
di questo vorrei parlare
di ciò che non so dire.
*
VIII
IL CORPO NUDO CI FA UGUALI
Lo stelo
Mi interessano
la bellezza del tuo volto
e i piedi leggeri
sui quali appoggi la virtù –
lo stelo che ambisce
innalzare il tuo fiore
al cielo della vita.
*
La poesia
L’occhio non ha sesso
Quando moduli l’azzurro dei tuoi occhi
è come se mi tagliassi
via dal reale
per gettarmi nella fornace dell’amore.
Ahimè io che di poesia
non facevo parola ad alcuno.
*
IX
SPAZIO DI RESPIRO
Attesa
Nelle forze acquatiche vedo le origini.
Ma sul palco della vita
dalle ginestre fino all’orizzonte
è attesa di morte.
*
Un cuore e due iniziali
Mi nascondo tra i cipressi
lungo il viale delle catacombe
sotto un cielo così grigio
che pare immobilizzare il tempo.
Mi nascondo dalla morte
in un presente che dilato –
ancorato a ciò che vedo
spero di saltare il mio turno.
Il sole s’abbassa tra le ramaglie
si fa lama e incide un cuore e due iniziali.
*
In morte di un francese
A Perpignan sei sprofondato in una voragine
apertasi nella sabbia sotto i tuoi piedi.
Hanno estratto il corpo
ma la vita è rimasta là sotto –
sepolta anzitempo.
Diciotto anni di esistenza
e nel mondo non ci sei più –
il TG francese ti ha dedicato qualche minuto
poi ha continuato il giro di notizie
dimenticandoti.
Se non c’è Dio né resurrezione
ma solo chimica e biologia
sei scomparso per sempre in uno spazio dilatato
come una formica calpestata
per caso nella sabbia
mentre il resto della materia vivente e intelligente
continua ad esistere –
anche se cadrà – poco più in là –
un individuo dopo l’altro.
Sei finito nella rete della morte per un gioco inesatto
tra un bambino che scava ed il mare –
spero che Dio esista
e tu possa essere una nascita non sprecata.
Quiberon, agosto 2011
*
Andrea (20 agosto 1989)
1
Il mio nome è stata la tua ultima parola
nell’aria di questo mondo
mentre qualcosa esplodeva nel tuo cervello
squassando ogni connessione e pensiero.
Mi tenevi la mano
e forse speravi che riuscissi
a trattenerti qui con noi.
2
Ti volevo bene.
Molte volte in sogno torni vivo –
ed è vero.
*
Morire
La morte avviene
sempre nello stesso modo:
si fermano il cuore e il respiro –
ci si dimentica di esistere.
*
Stupore di un morto davanti alla vita
Credevo che non avvenisse altro
dopo di me
finisse il mondo
si fermasse – almeno
si congelasse… invece…
invece si rinnova –
continua –
per me irreale.
*
X
DIO
Dio è l’invisibile evidente.
Victor Hugo
Dio
[…]
Ti cerco instancabilmente
ed è solo per la nostalgia che ho di te
che scrivo poesie.
*
La minestra
2
Dio ha una verità –
me la ripete di continuo
ma di continuo la dimentico.
Egli prova a mostrarla negli alberi in fiore –
o tra i versi di qualche poesia –
o mentre affétto la carne e rimescolo
la minestra per questa mia biologia –
ma sempre la dimentico.
*
XI
DISCRIMINANTE
Angolo d’Universo
In questo angolo di Universo
c’è un buco nel tetto
della casa che mi ospita:
nell’azzurro s’appiattisce l’infinito.
*
Il lago
Nel lago vedo immagini che sembrano
appartenere a un mondo reale –
finché il soffio del vento o la pioggia
ne scompigliano la superficie levigata.
Così è la realtà osservabile:
un riflesso instabile che ci pare sostanza.
*
XII
AFFANNI
L’affanno del mondo
L’Universo è così come lo vediamo perché noi potessimo esserci
o noi ci siamo perché l’Universo è così come lo vediamo?
1
Si affanna il mondo ad esistere –
sia nei cervelli che nei cuori –
negli spazi aperti
e nella terra compatta e rocciosa.
Non sappiamo da dove arrivi
né il suo destino
o chi lo attenda dietro
la soglia dei minuti e dei millenni.
2
Sarebbe bello evitare l’inesistenza nella morte –
o se (almeno) prima di scomparire
qualcuno potesse suggerirci – per un attimo tra i pensieri –
la verità sul mondo.
*
XIII
UNIVERSO A SORPRESA
L’amore è uno spazio espanso.
R. M.
Il mio Universo è nato in una piazza
tra le note di Santa Cecilia –
ha inscritti i codici e le leggi
della mia nuova vita.
Il mio Universo si è espanso
per un’incertezza non calcolata –
come quei sorrisi rapidi e inaspettati
che s’allargano sui volti –
destinati ad una persona
eppure evidenti a chiunque.
Il mio Universo ha un corpo non necessario
ma di cui non potrei fare a meno.
E’ come la pietra di marmo su cui sedeva –
scolpita nel candore della sua forma.
sito web di provenienza: www.ebook-larecherche.it
DALLE POESIE DI ANTONIA POZZI (1912 – 1938)
RACCOLTE IN “PAROLE” –
“DISTACCO DALLE MONTAGNE”
Questa è la prova
che voi mi benedite –
montagne –
se nell’ora del distacco
la vostra chiesa m’accoglie
con la sua bianchezza di sole
e abbraccia forte la mia
malinconia
col canto
delle campane di mezzogiorno –
Nella piccola piazza
una donna ridente
vende le prugne rosse e gialle
per la mia ardente
sete –
sul gradino di pietra
della fontana
luccica la lama
di una piccozza –
l’acqua diaccia gela
il riso in bocca
a un fanciullo –
stampa lo stesso riso
sulla mia bocca –
Questa è la vostra
benedizione –
montagne.
(Valtournanche, 30 luglio 1933
Pasturo, 23 agosto 1933)
*
“TRENI”
A notte
un lento giro d’ombre rosse
alle pareti avviava i treni: tonfi
cupi d’agganci
al sonno si frangevano.
E lavava
lieve la corsa della pioggia il fumo
denso ai cristalli: sogni
s’aprivano continui, balenanti
binari lungo un fiume.
Ora ritorna
a volte a mezzo il sonno quel tuonare
assurdo
e per le mute vie serali, ai lenti
legni dei carri e dentro il sangue
chiama
lunghi fragori – e quell’antico ardente
spavento e sogno
di convogli.
(Torino, 1 maggio 1937)
*
“DON CHISCIOTTE, I”
Sulla città
silenzi improvvisi.
Varchi
con un sorriso indefinibile
i confini:
sai le spine di tutte le siepi.
E vai,
oltre i fiati caldi degli uomini,
il sonno dopo gli amori,
l’affanno e la prigionia.
Su la petraia che è azzurra
come le corolle del lino,
liberata
canti correndo:
ma chiudi gli occhi
se in fondo al cielo
le ali bianche dei mulini
si dilacerano
al vento.
(21 febbraio 1935)
*
“DON CHISCIOTTE, II ”
Fioche
dalla terra brulla
ti giungono
grida atterrite:
mentre seguita
su l’ala immensa
a rotare
la tua crocefissione.
(22 febbraio 1935)
*
GIUDIZI CRITICI E TESTIMONIANZE SULLA POETESSA ANTONIA POZZI (1912-1938) – 1
DALL'ARTICOLO DI ALESSANDRA CENNI, APPARSO SULLA RIVISTA “SATISFICTION” (17 MAGGIO 2013)
[... ]
[La poesia di Antonia Pozzi] si muove ben oltre il crepuscolarismo e l’ermetismo che attraversa senza farsene influenzare: le sue parole esplorano le verità etiche, esistenziali, denunciano l’urto dei mutamenti sociali, la crisi delle coscienze durante il fascismo e raccontano liricamente il nostro rapporto con la natura e il cosmo grazie a una accorta finezza stilistica e originalità immaginative ed espressive. Mostrano la profondità e vastità della sua cultura, dato che conosceva in lingua originale tutti i principali autori della letteratura europea dissimulandola dietro l’aerea levigatezza del suo stile. Così di rilkiani “frutti di morte” e di ricerca della “pace”, utilizzando lo stesso lessico dei suoi amici [Antonia] Pozzi e [Vittorio]Sereni, [la poetessa Daria] Menicanti allude per un’analoga tentazione, rientrata, nel suo poetico riferimento a quella volontà di morte che contrassegna la scelta di molti di quegli intellettuali della “crisi” e che investiva la loro vita personale, i loro anticonformisti tentativi di salvezza nell’avventura creativa, per ripiegarsi, per impossibilità di ribellione, sotto il peso della sopravvivenza , senza potersi ritrovare o riconoscere vivi nell’ urbano decoro della noia quotidiana.
[...]
[In calce all’articolo di Alessandra Cenni – che fa il punto sulle imminenti iniziative editoriali dedicate ad Antonia Pozzi – si riporta anche una poesia inedita di Daria Menicanti, scritta dopo la drammatica fine di un amore della scrittrice e dedicata all’amica poetessa. La poesia è datata Pavia, 13 agosto 1950 . Eccone il testo.]
ANTONIA
Quando decisi di uscire
per sempre dalla sua vita –
di uscire dalla sua vita -
e dopo tanta febbre, torture e agonie
per lui, volli essere morta –
essere morta –
dicesti che era (alzando parlavi le ciglia
con l’aria di chi sa tutto) che era un suicidio
a parole, uno dei soliti miei suicidi in versi.
e che piuttosto dovevo tirarmi su e mangiare
qualcosa di meglio che tartine e tè amaro.
Invece solo un poco più folta qui dal muro
l’erba fa la mia pace – come dici tu – la mia pace,
ma i giorni di primavera e i canti di primavera
sì, dove sono, dove sono andati?
Daria Menicanti
[articolo prelevato da Facebook]
DALLE POESIE DI ANTONIA POZZI (1912 – 1938),
RACCOLTE IN “PAROLE”
Radici
Gronda di neve disciolta
la casa. Trasale... l'anima al tonfo delle gocce fitte.
Così sfacendosi
dolorano le cose.
Ma lontano,
oltre i veli del sole e gli insicuri riflessi,
oltre il trascolorare delle ore,
vive un esiguo mondo
d'erba e di terra.
Radici
profonde nel grembo di un monte
a Primavera votate
si celano.
E conosco
io sola
il nome d'ogni fiore
che fiorirà,
la luce ed il pezzo di zolla
in cui prima riappaia la tenera
esistenza delle foglie.
Radici
profonde nel grembo di un monte
conservano un sepolto segreto
di origini –
e quello per cui mi riapro
stelo
di pallide certezze.
15 febbraio 1935
*
Vicenda d'acque
La mia vita era come una cascata
inarcata nel vuoto;
la mia vita era tutta incoronata
di schiumate e di spruzzi.
Gridava la follia d’inabissarsi
in profondità cieca;
rombava la tortura di donarsi,
in veemente canto,
in offerta ruggente,
al vorace mistero del silenzio.
Ed ora la mia vita è come un lago
scavato nella roccia;
l’urlo della caduta è solo un vago
mormorio, dal profondo.
Oh, lascia ch’io m’allarghi in blandi cerchi
di glauca dolcezza:
lascia ch’io mi riposi dei soverchi
balzi e ch’io taccia, infine:
poi che una culla e un’eco
ho trovate nel vuoto e nel silenzio.
Milano, 28 novembre 1929
*
IL VOLTO NUOVO
Che un giorno io avessi
un riso
di primavera – è certo;
e non soltanto lo vedevi tu, lo specchiavi
nella tua gioia:
anch’io, senza vederlo, sentivo
quel riso mio
come un lume caldo
sul volto.
Poi fu la notte
e mi toccò esser fuori
nella bufera:
il lume del mio riso
morì.
Mi trovò l’alba
come una lampada spenta:
stupirono le cose
scoprendo
in mezzo a loro
il mio volto freddato.
Mi vollero donare
un volto nuovo.
Come davanti a un quadro di chiesa
che è stato mutato
nessuna vecchia più vuole
inginocchiarsi a pregare
perché non ravvisa le care
sembianze della Madonna
e questa le pare
quasi una donna
perduta –
così oggi il mio cuore
davanti alla mia maschera
sconosciuta.
*
In riva alla vita
Ritorno per la strada consueta,
alla solita ora,
sotto un cielo invernale senza rondini,
un cielo d’oro ancora senza stelle.
Grava sopra le palpebre l’ombra
come una lunga mano velata
e i passi in lento abbandono s’attardano,
tanto nota è la via
e deserta
e silente.
Scattano due bambini
da un buio andito
agitando le braccia:
l’ombra sobbalza
striata da un tremulo volo
di chiare stelle filanti.
Gridano le campane,
gridano tutte
per improvviso risveglio,
gridano per arcana meraviglia,
come a un annuncio divino:
l’anima si spalanca
con le pupille
in un balzo di vita.
Sostano i bimbi
con le mani unite
ed io sosto
per non calpestare
le pallide stelle filanti
abbandonate in mezzo alla via.
Sostano i bimbi cantando
con la gracile voce
il canto alto delle campane: ed io sosto
pensandomi ferma stasera
in riva alla vita
come un cespo di giunchi
che tremi
presso un’acqua in cammino.
Milano, 12 febbraio 1931
BLAS DE OTERO
SERENA VERITA'
C'è un momento, c'è un lampo in rabbia viva,
tra gli abissi dell'essere, squarciati
in cui Dio si fa amore, e il corpo sente
la sua tenera mano come un peso.
Tanto lungo silenzio già soffrimmo,
a tentoni cercammo, tante volte;
d'orrore e vuoto siamo sì coperti
che, tra l'ombra, la Sua presenza brucia.
Grandi dolori, con immensa fame,
ci mangiarono l'ansie; ma nessuno
è come te, di Dio dolore; all'uomo
leone; eterna fame; sete in bilico.
Ma, subito, in un intimo languore,
(un istante interiore, fatto eterno),
nasce l'amore, irrompe, ci solleva,
ci proietta nel cielo, come un mare.
Siamo cibo di luce. Fiamma a un vento
smisurato vibrando in qua e in là,
vento violentemente verticale
tra le fronde d'amore che si schiantano.
..............................................................
Questo fiume che passa sempre e mai,
questa selva ignorata che mi accoglie,
sono, su portentosi abissi, sogni
di Dio: eternità fluente e immota.
Cercai, cercai. Le mani nebbia sanguinano,
portarono in lavine e calvi picchi,
screpolarono, in piaghe d'infinito,
ma ogni cosa fu vana: Tu evadesti.
E odiai la sua presenza. Odiamo, dissi,
l'Imprendibile. Ah si! Ma più feroce
il supplizio. La sete ardeva sola.
Come un'ondata, m'annegasti tu.
Fiamma in furore fui. Di luce cibo,
vento d'amore che, violentemente,
schiantava i rami e li portava in alto,
sì, li portava in alto, nel tuo cielo.
Là, a uno spiro di zefiro oscillando,
in finissima luce e in acque d'oro,
godon la pace, sembra che ti guardino,
serena Verità, coi miei due occhi.
JORGE LUIS BORGES
Rimorso per qualsiasi morte
Libero dalla memoria e dalla speranza,
illimitato, astratto, quasi futuro,
il morto non è un morto: è la morte.
Come il Dio dei mistici,
del Quale si devono negare tutti i predicati,
il morto ubiquamente estraneo
non è che la perdizione e l'assenza del mondo.
Tutto gli derubiamo,
non gli lasciamo né un colore né una sillaba:
qui c'è il patio che già non condividono i suoi occhi,
là il marciapiede dove spiava la sua speranza.
Perfino ciò che pensiamo potrebbe starlo pensando lui pure;
ci siamo spartiti come ladroni
il capitale delle notti e dei giorni.
*
Sabati
Fuori c'è un occaso, gioiello oscuro
incastonato nel tempo,
e una profonda città cieca
di uomini che non ti videro.
La sera tace o canta.
Qualcuno decrocifigge gli aneliti
inchiodati nel pianoforte.
Sempre, la moltitudine della tua bellezza.
* * *
A dispetto del tuo disamore
la sua bellezza
prodiga il suo miracolo nel tempo.
E' in te l'avvenire
come la primavera nella foglia nuova.
Già quasi non sono nessuno,
sono soltanto quell'anelito
che si perde nella sera.
In te sta la delizia
come sta la crudeltà nelle spade.
* * *
Opprimendo l'inferriata sta la notte.
Nella sala severa
si cercano come ciechi le nostre due solitudini.
Sopravvive alla sera
il biancore glorioso della tua carne.
Nel nostro amore c'è una pena
che somiglia all'anima.
* * *
Tu
che ieri soltanto eri tutta la bellezza
sei anche tutto l'amore, adesso.
[da: "Fervore di Buenos Aires"]
PEDRO SALINAS
LA MATERIA NON PESA
La materia non pesa.
Il tuo corpo ed il mio,
uniti, non sentono mai
schiavitù, sentono ali.
I baci che tu mi dai
sono sempre redenzioni:
tu baci verso l'alto,
e qualcosa di me porti a luce,
costretto prima
nel fondo oscuro.
Lo salvi, lo guardiamo
per vedere come ascende,
e vola, per l'impulso che gli dài,
verso il suo paradiso
dove ci aspetta.
No, non opprime la tua carne
e neppure la terra che calpesti
né il mio corpo che stringi.
Sento, quando mi abbracci,
che ho tenuto contro il petto
un lieve palpitare,
vicinissimo, di stella,
che viene da un'altra vita.
Il mondo materiale
nasce quando tu parti.
E sull'anima sento
quest'oppressione enorme
di ombre che hai lasciato,
di parole, senza labbra,
scritte su fogli di carta.
Restituito alla legge
del metallo, della roccia,
della carne. La trua forma
corporea,
il tuo dolce peso rosa,
è ciò che mi rendeva
il mondo più lieve.
Ma ciò che non sopporto
è che mi schiaccia,
chiamandomi alla terra,
senza te per difendermi,
è la distanza,
è il vuoto del tuo corpo.
Sì, tu mai, tu mai:
il tuo ricordo, è materia.
[trad. Emma Scoles]
VICENTE HUIDOBRO
Fatica
Cammino giorno e notte
come un parco desolato.
Cammino giorno e notte tra sfingi cadute dai miei occhi;
guardo il cielo e la sua erba che impara a cantare;
guardo la campagna ferita a grandi grida
e il sole in mezzo al vento.
Accarezzo il mio cappello pieno di una luce speciale;
carezzo il dorso del vento;
i venti, che passano come le settimane;
i venti e le luci con apparenza di frutta e sete di sangue;
le luci, che passano come i mesi;
mentre la notte s'appoggia alle case
e il profumo dei garofani gira intorno al loro asse.
Prendo posto, come il canto degli uccelli;
è la fatica lontana e la bruma;
cado come il vento sulla luce.
Cado sulla mia anima.
Ecco l'uccello dei miracoli;
ecco i tatuaggi del mio castello;
ecco le mie penne sul mare, che grida addio.
Cado dalla mia anima.
E mi rompo in pezzi d'anima sull'inverno;
cado dal vento sulla luce;
cado dalla colomba sul vento.
*
Illusioni perdute
Foglia dell'albero caduta in infanzia
foglia caduta in ginocchio
al centro del suo oblio
dolce balocco di speranze e lampi
che sanguina dalla testa ferita
come le illusioni ottiche
nel palazzo di morte non scordabile
costante nave dal cuore dolente
tra naufragio e ombra che s'affretta
Foglia del nodo caduto in albero caduto in infanzia
dove mai ti trascinano foglia dal dolce cuore
e gli eccessi del fuoco delle aquile visive
foglie dei rami riscaldabili
ferme nell'aria
pronte alla corruzione fra le loro stesse braccia
come le acque stregate
Foglie di fantasmi sorpresi
foglie di uccelli scritti
ciascuna ha un cavallo e una colomba
ciascuna ha un orizzonte ad ogni costo
e per la sua amarezza né albero né vela.
Foglie dell'albero cadute
sul capo del poeta
sul suo desiderio di piangere perché non giunge mai
quello che aspetta in fondo ad ogni verso
quello che attende dietro tutte le ombre
WALT WHITMAN
Da dietro questa maschera
(per far fronte a un ritratto)
Da dietro questa maschera inclinata dai tratti rudi,
Queste luci e queste ombre, questo dramma di tutto,
Questa comune cortina del viso,
contenuta in me stesso per me stesso,
in voi per voi stessi, in ciascuno per lui medesimo,
(Tragedia, dolori, risate, lacrime - O cielo!
I drammi appassionati e debordanti
che questa cortina nasconde!)
Questa superficie liscia e brillante come il più puro
e il più sereno cielo di Dio,
Questa pellicola che ricopre
un ribollente baratro satanico,
Questa carta geografica del cuore,
questo continente minuscolo e senza limiti,
questo insondabile oceano;
Dal fondo delle circonvoluzioni di questo globo,
Quest'orbe astronomico più sottile del sole e della luna,
di Giove, Venere o Marte,
Questa condensazione dell'universo
(di più, è qui il solo universo,
E' qui l'idea, racchiusa tutta intera
in questa mistica particella di carne);
Dal fondo di questi occhi bulinati
- che dardeggiano verso di noi il loro splendore
per passare di là ai tempi futuri,
Per slanciarsi e girare, furtivo, attraverso gli spazi, -
uscito da quegli occhi là,
A voi, sappiatelo, indirizzo uno sguardo
***
Silenzioso e paziente un ragno
Silenzioso e paziente, un ragno
Si teneva isolato su un piccolo promontorio
dove l'ho osservato,
Ed ho rilevato come, per esplorare il vasto spazio
che lo circondava,
Proiettasse fuori di sé dei filamenti,
dei filamenti, dei filamenti,
Che dipanava senza posa,
che agile emetteva infaticabilmente.
E tu pure, anima mia, là dove te ne stai,
Circondata, isolata, tra gli oceani infiniti dello spazio,
stai senza posa a meditare, ad avventurarti,
a lanciarti, a cercare le sfere per unirle,
Fin quando il ponte di cui avrai bisogno sia costruito,
Fin quando la duttile ancora tenga fermamente,
Fin quando il filo della vergine che tu getti
si agganci in qualche parte, anima mia
*
Credevo che nulla esistesse di più splendido del giorno
fino al momento in cui ho visto
quale che il non-giorno mostrava,
Ho creduto che questo globo bastasse
fino al momento in cui, in un tal silenzio intorno a me,
zampillarono miriadi di altri globi...
Oh, vedo bene oggi che, non più che il giorno,
la vita non può mostrarmi tutto,
Vedo che mi conviene attendere
quel che mi mostrerà la morte
*
... Splendido mondo, d'una nuova e più grande nascita,
che si alza ai miei occhi,
Come un'immensa nube d'oro che riempie l'ovest del cielo,
Emblema di maternità universale ritto al di sopra di tutto,
Forma sacra di quella che genera figlie e figli,
Con i tuoi figli giganti che escono in perpetua processione
dal tuo seno instancabile,
che vengono, usciti da una tale gestazione, a raccogliere
la loro parte d'eredità, che da te ricevono e ti donano continuamente la forza della vita,
Mondo di realtà - mondo del due in uno,
Mondo dell'anima, generato soltanto dal mondo delle realtà,
conduce alle realtà, al corpo da sé sole,
Tuttavia non sei ancora che al tuo inizio...
O mondo di meraviglie, sei ancora indefinito, informe,
ed io non credo più di definirti,
perché come potrei perforare l'impenetrabile
sconosciuto del futuro?
Sento la tua terribile grandezza, fatta di male come di bene.
Ti vedo avanzare, assorbire il presente,
sorpassare quel che fu non molto tempo fa,
Vedo l'illuminazione della tua luce
e l'ombra portata dalla tua ombra,
come se coprissero il globo intero,
Ma non cerco di definirti, a rischio di comprenderti,
Non faccio in questo momento altro che nominarti, profetizzarti,
Non faccio unicamente che chiamarti!
... L'anima, i suoi destini, tale è la realtà delle realtà,
(il senso finale di tutte queste apparizioni del mondo reale...)
Rainer Maria Rilke
(da "Elegie duinesi", 1923, traduzione di Franco Rella)
[...]
Certo, è strano non abitare più la terra,
non agire più gli usi da così poco appresi,
e alle rose, e alle altre cose piene di promesse
non dare più senso di un umano futuro;
ciò che eravamo in mani illimitatamente ansiose
non essere più, e anche il proprio nome
abbandonare come un giocattolo infranto.
Strano non desiderare più i desideri. Strano
quel che stretto si teneva vederlo dissolto
fluttuare nello spazio. E penoso essere morti:
un continuo ricercare, faticosamente in traccia
di un poco d’eternità. – Ma i viventi compiono
tutti l’errore di tracciare troppo confini netti.
Gli angeli (dicono) spesso non sanno se vanno
tra i vivi o tra i morti. L’eterna corrente
trascina attraverso entrambi i regni ogni età,
sempre con sé, ed entrambi sovrasta con il suo suono.
[...]
DALLE POESIE DI ANTONIA POZZI
“VOCE DI DONNA”
Io nacqui sposa di te soldato.
So che a marce e a guerre
lunghe stagioni ti divelgon da me.
Curva sul focolare aduno bragi,
sopra il tuo letto ho disteso un vessillo -
ma se ti penso all’addiaccio
piove sul mio corpo autunnale
come su un bosco tagliato.
Quando balena il cielo di settembre
e pare un’arma gigantesca sui monti,
salvie rosse mi sbocciano sul cuore:
che tu mi chiami,
che tu mi usi
con la fiducia che dai alle cose,
come acqua che versi sulle mani
o lana che ti avvolgi intorno al petto.
Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle.
(18 settembre 1937)
*
Prati
Forse non è nemmeno vero
quel che a volte ti senti urlare in cuore:
che questa vita è,
dentro il tuo essere,
un nulla
e che ciò che chiamavi la luce
è un abbaglio,
l'abbaglio supremo
dei tuoi occhi malati -
e che ciò che fingevi la meta
è un sogno,
il sogno infame
della tua debolezza.
Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.
Ma noi siamo come l'erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.
Milano, 31 dicembre 1931
*
Gioia
Lo splendore del sole
ti abbacinava ieri
dolendo
come la piaga
nelle pupille del cieco.
ma oggi
lo splendore del sole
non è abbastanza lucente
per la lucentezza tua:
nell’infinito mondo non c’è
che questo tuo splendore vero.
6 marzo 1932
*
L'orma del vento
Corre incontro al sereno il folle vento
recando nelle aeree braccia
una tremante attesa di gemme.
Corre l'anima incontro
a un ignoto miracolo
recando in tutto l'essere
un'infinita, prodigiosa attesa.
Tornano i passi a strade abbandonate,
per un sole che ride
come in luoghi lontani,
per un'aria che odora
come in perduti giorni.
Torna l'ansia di un tempo
e la certezza
la divina certezza ritorna:
oh, tu ancora mi attendi
in fondo a questa via,
presso il vecchio cancello
mascherato d'edera nera!
ancora, ancora
tu mi prendi le mani
e me le baci
e mi chiami giaggiolo...
Urta il folle vento e si spezza
contro un cumulo greve di nubi.
L'aria sembra morire
senza respiro.
Oh, tu non torni,
tu non puoi tornare!
Ben altra pena,
ben altro sangue
chiama i miracoli!
Cade il folle vento: si perde
dietro le nebbie grigie il sereno.
L'anima sembra morire
senza più sogni.
E il cielo è ormai tutto di perla
e chiama, chiama,
nel vuoto enorme,
un sorriso di stelle.
Presso il vecchio cancello,
contro le croci nere dell'edera,
una fioraia ha deposto i suoi fiori.
Per poche lire mi compro
un mazzo magro di fresie,
e a consolarmi l'anima
basta il pensiero
che il grande ignoto miracolo,
il volto arcano
della mia attesa prodigiosa,
si chiuda in queste bocche protese
che mordono con labbra di viola
qualche pallido filo di sole;
in queste tenui vite
che nella malinconia di una sera
calata sopra un'orma di vento,
fanciullescamente mi dono,
per la mia primavera.
Milano, 27 febbraio 1931
Abbandono
Tronco reciso di betulla
giaci
in un solco:
a rosse onde declina
il tramonto pei cieli.
E sopra te le nubi
sandali d'oro calzano nel vento
per raggiungere
i fiumi.
Tu stai – bambino desto
nella tua culla
di terra:
mentre a un acceso volgere di mondi
con bianchi occhi s'incanta
la tua immobilità.
16 febbraio 1935
*
Stanchezza
Svenata di sogni
ti desti:
ti è pallida coltre
il cielo mattinale.
Come a un mortale
pericolo scampata,
con gesto umile – i gridi
delle campane scosti:
debolmente,
preghi nel poco sole
un silenzio.
*
“VANEGGIAMENTI”
(ad A. M. C.)
Io l’ho veduto, allora. Tu suonavi
il tuo violino, con la testa bassa:
le ciglia ti segnavano sul viso
due strisce d’ombra. Io vibravo, forse,
insieme con le corde, nei singhiozzi
che l’anima imprimeva alla tua mano
e t’incontravo al sommo delle dita.
O forse ti giocavo sui capelli
insieme con la brezza acre del mare.
Forse m’illanguidivo nei racemi
molli e compatti delle violeciocche.
E un giorno riponesti le tue musiche;
riponesti, piangendo, il tuo strumento:
la Morte te lo avea fasciato stretto
coi suoi velluti neri. Io t’ho veduto,
fratello, allora. Ma non so dov’ero.
Forse ero solo un ramo crasso ed irto
di fico d’India, dietro un vecchio muro.
*
MERIGGIO
In questa doratura di sole
io sono
una gemma pelosa
legata crudelmente con un filo di refe
perché non possa sbocciare
a bagnarsi di luce.
Accanto a me tu sei
una freschezza riposante d’erba
in cui vorrei affondare
perdutamente
per sfrangiarmi anch’io
in un ebbro ciuffo di verde –
per gettare in radici sottili
il mio più acuto spasimo
ed immedesimarmi con la terra
(19 aprile 1929)
*
Nel duomo
Sospingo una delle grevi porte
e mi cade alle spalle
la furia del meriggio ventoso.
A lenti passi m'inoltro,
bevendo l'ombra improvvisa
in lunghi battiti
delle palpebre stanche:
suonano i passi come morte cose
scagliate dentro un'acqua tranquilla
che in tremulo affanno rifletta
da riva a riva
l'eco cupa del tonfo.
Remiga la tristezza ad ancorarsi
in golfi arcani
d'oscurità profonde;
remiga per un mare favoloso,
ove sono i pilastri
tronchi d'una subacquea pineta,
viva e fitta così
per lontananze senza confine...
Brucia nella tenebra
una lucente siepe di ceri:
gli occhi vi si fissano
subitamente
e l'anima discende
dalle sperdute immensità
chiudendosi
in un nodo di fiamme.
Dinnanzi alla tremante fioritura
che chissà qual divino alito
inclina
verso il sorriso di un'antica madonna,
è immoto un bimbo.
Guarda, il piccolo, assorto,
e certo vede
nella cappella accesa
uno stupendo albero di Natale,
a cui siano fronde
le diafane dita dei ceri.
Certo sogna, il bambino,
che sian tutti balocchi
i rozzi vetri sanguigni
in cui esita un pallido lume...
Gli sbocca nei grandi occhi intenti
la piccola vita
e tutta si allarga
nella celeste immensità del sogno.
Sfocia così il tumulto
d'ogni mio male
nel riposo di un'estasi
senza confine
e l'anima ritrova la sua pace,
come un folle balzo di acque
che si plachi, incontrando
la suprema quiete del mare.
Milano, 3 marzo 1931
FERNANDO PESSOA
LE BOLLE DI SAPONE
Le bolle di sapone che questo bimbo
si diverte a staccare da una cannuccia
sono translucidamente tutta una filosofia.
Chiare, inutili e passeggere come la Natura,
amiche degli occhi come le cose,
sono quello che sono
con una precisione rotondetta e aerea,
e nessuno, neppure il bimbo che le libera,
pretende che siano più che non sembrino.
Alcune a stento si vedono nell'aria tersa.
Sono come la brezza che passa e tocca appena i fiori
e solo sappiamo che passa
perchè qualche cosa si alleggerisce in noi
e accetta tutto più nitidamente.
*
Sono un guardiano del gregge
Il gregge sono i miei pensieri
E i miei pensieri sono tutti sensazioni.
Penso con gli occhi e con le orecchie
E con le mani e coi piedi
E con il naso e con la bocca.
Pensare un fiore, è vederlo e respirarlo.
E mangiare un frutto è saperne il senso.
Ecco perché quando un giorno di caldo
Mi sento triste di goderne tanto,
E mi stendo completamente nell'erba,
E chiudo gli occhi che bruciano,
Sento che tutto il corpo è steso nella realtà,
So la verità e sono felice.
Tu dici, vivi nel presente;
Vivi solo nel presente.
Ma io non voglio il presente, voglio la realtà:
Voglio le cose che esistono, non il tempo
Che le misura.
Cos'è il presente?
È qualcosa di relativo al passato e al futuro.
È una cosa che esiste in funzione dell'esistenza
Di altre cose.
Ma io voglio la sola realtà, le cose senza presente.
Non voglio includere il tempo nel mio schema.
Non voglio pensare le cose in quanto presenti:
Le voglio pensare in quanto a cose.
Non le voglio separare da esse stesse,
Trattandole come presenti.
Non dovrei nemmeno trattarle come reali.
Non dovrei trattarle affatto.
Dovrei solo vederle, semplicemente vederle;
Vederle fino al punto di non poterle pensare,
Vederle fuori dal tempo, fuori dallo spazio,
Vederle con la facoltà di toglier tutto tranne il visibile.
Ecco la scienza del vedere, che non è scienza
Da Il Guardiano del gregge- Poesie complete di Alberto Caerio (un eteronimo di F. Pessoa)
Gianfranco Vacca
Da: Ancora introvabile il padrone del silenzio
Dalla sezione Sarebbe stato un ottimo pazzo
Campanotto Editore, 2011
I
Spacca il diamante
e sbriglia tutte le potenze
del suo centro.
Pochi giunsero,
lo vorresti tu?
dove nulla è stato, prima
e nulla è
la memoria, i ricordi.
Solo l’immenso apice
già espanso in pioggia di schegge
fra molteplici altrove
che in lui si spalancano.
Roma
*
III
Odisseas Elitis
“Corre in maniera stupenda il cielo
a giudicare dalle nuvole”
loro conoscono il destino
di apparire mobili
o di esserne l’intenzione.
Eppure mentre lui scorre, alto
molta solitudine piove in loro
nel credersi escluse dal moto
delle rotazioni celesti
ed un sentimento fermo
senza giudizio né legge
le ribella, in alto
indecise dove aderire
se tutto muta, tutto è fermo
e apparenza e fine
sperdute
nella memoria del vento.
Roma/Capri
*
Il vento assumeva
le pieghe del suo manto
e le stelle coloravano la sua forma
ed era come se la luce
emersa nel suo punto
avesse mani e carezze, in me
ed io vidi.
L’invisibile
condensava fumi ed ombre
come avvenute d’incanto
l’occhio stesso le rendeva tattili
ed era, dove prima era il nulla
tu fosti, come non sembrava
e l’ombra si arruolò alla vita.
Capri
*
Crisopazio, mondo di giallo
primo mattino e splendore —
Cobalto il giorno nel suo mezzo
ampio scudo e certezza
marcia potente di cielo —
Palpabile plenilunio il bianco
come un occhio tattile
mai raggiunto dalla mia mano —
Ma il rosso
è della sera a tal punto
da divenire in lei mutuo sussurro
Posso
Puoi
Capri
*
Gemello visivo
nella mia ombra sotto la luna
cosa fece di te negligenza
passeggiando il giardino,
non sei tu luce abbastanza?
Nel vestibolo di mimose
irrompe il vento
— vasto fragore
e la notte incontra il cielo
attimo che l’anima vola
da una spettrale inestimabilità di tali immensi
che le sue frontiere mortali
annulla.
Roma
*
Quando sono morto
fino a che sarà possibile
consegnerò il nulla che resta di me.
Non vedrò
nel vederti raccogliere le mie mani
tese a stringere ancora un poco
il cuore
per conoscere chi sono, in me, chi ero
per cederlo, se anche tu mi arrenderai.
Capri
*
Inediti
Quando io sono io
e uno di me è altrove
quell’uno più il mio uno
sarà sempre uno,
siamo tutti presenti
sostanza – di me –
espansione
ubiquità
Il primo io sarà il mio ipnotico
il secondo la mia ossessione
il terzo, nel primo
ma il secondo nell’uno
restituisce me stesso all’ignoto
per fare, all’eccelso
della mia casa rovina.
*
Sito web di provenienza:
www.ebook-larecherche.it
www.larecherche.it
DALLE POESIE DI ANTONIA POZZI
“DESIDERIO DI COSE LEGGERE”
Giuncheto lieve biondo
come un campo di spighe
presso il lago celeste
e le case di un’isola lontana
color di vela
pronte a salpare –
Desiderio di cose leggere
nel cuore che pesa
come pietra
dentro una barca –
Ma giungerà una sera
a queste rive
l’anima liberata:
senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
salperà – con le case
dell’isola lontana,
per un’alta scogliera
di stelle –
[1 febbraio 1934]
*
Angela Greco
da: «Arabeschi incisi dal sole», Terra d’ulivi, Lecce, 2013
In questo quando d’ombra e presagio
in questo quando d’ombra e presagio
trattienimi parola sul limite oscuro:
è una cicatrice d’alabastro la pelle agli occhi del giorno
dove lasciare polvere di trascorsi e sabbia
assente d’orma che non siano i miei fantasmi
scivolami addosso nelle pieghe
di un’ora di pioggia e pagine cancellate
raccontami di cieli sottosopra nello specchio
di quanto è stato tolto al ramo e gettato nello scarico
imbiancato da rimorsi e ripartenze
e poi – soltanto allora, però -
ingannami col ci saremo ancora
all’imbrunire di quel sogno (non più nostro)
mentre accanto al corpo la croce
già esige chiodi e non più mattini.
*
Risposte
scivola tra dita bianche “C’era una volta”
d’incertezza e domani al petto allattati
ché perso d’essere fanciullo è il tempo
di luce per il tuo oggi di piccole mani
e d’attesa ancora mugola - fino a quando?
di fiati sorrisi umili di cielo senza stelle
si confondono a tarda ora culle e croci
con filo dorato di paglia intessute
e nell’affanno del giorno che presta mano
a notte fonda nel ricamo del tuo sonno di sogni
vedo stracciati fogli e figli senza colore
in una veglia di silenzio e preghiera
che non sia un rosso scuro terra
ho chiesto una risposta che (ancora) non c’è
*
frammento da: Epilogo
io sono il sud
bianco di calce
giallo di polvere
e terre bruciate
di paesaggi azzurri
rive e cieli schiaffeggiati
da distanze indomabili
racchiusi nella conchiglia
che nascosta batte
al sole più alto
Per maggiori dettagli rimando a questo link:
http://caponnetto-poesiaperta.blogspot.it/search?updated-max=2013-07-05T02:13:00-07:00&max-results=7